Multipotenzialità fotografiche

Scommetto che quando eri piccolo, anche a te avranno rivolto la fatidica domanda: “cosa vuoi fare da grande?”.

E il sottinteso di tale domanda è che dovevi scegliere una cosa, e una soltanto, a cui dedicare tutte le tue energie, al fine di conseguire pieno e sicuro successo (specialmente economico).

La speranza – magari nascosta – di ogni genitore è che il pargolo risponda saggiamente di voler diventare ingegnere, avvocato, medico, attività tradizionali e comprensibili, da cui possa derivare un buon reddito.

Se borbottavi di voler fare l’astronauta o l’esploratore il tutto finiva con risatine compiaciute: in fondo eri piccolo, crescendo avresti messo la testa a posto e compreso che la tua strada doveva essere molto ben tracciata, non certo un sentiero ardito e poco riconoscibile.

Di rado, temo, un giovane virgulto risponderà alla fatidica domanda dicendo di voler fare il fotografo e di certo se lo fa scatenerà il panico nei genitori, che lo vedranno destinato a fare la fame, a vivere una vita complicata e senza certezze, come ogni artista, in fondo.

 

Ai miei andò anche peggio. Mia madre era davvero fissata con il “lavoro sicuro”, mentre a me ognuna delle possibili opzioni sembrava assolutamente terrificante.

Perciò diedi fondo a tutte le mie molte passioni, suggerendo che avrei potuto fare il cineasta (già a dodici anni giravo filmetti orribili con la cinepresa 8 mm di famiglia) o il giornalista, al più lo scrittore, ma che sarebbe andato bene anche il naturalista, il botanico e certo, l’artista o il fotografo. Ognuna di tali proposte era una stilettata nel cuore materno.

Allora non lo sapevo – e in verità non ci avevo mai pensato sino a pochi giorni fa, poi spiegherò perché – ma i “multipotenziali” come me avranno sempre vita difficile.

Insomma, chi ha un talento ben preciso e la capacità di applicarsi anima e corpo a una materia, conduce di sicuro una vita più tranquilla, come mio fratello ad esempio, un vero genio nello studio e dunque eccellente ingegnere. Ma io dopo un po’, pur applicandomi, finivo per annoiarmi di qualunque argomento: per questo mi piacevano mestieri che potevano essere declinati in molti modi.

Un giornalista o un saggista può scrivere di mille argomenti diversi. E, in effetti, anche un fotografo. E’ forse per questo che sono diventato un “adepto della luce”, scoprendo però ben presto che nel mondo della fotografia chi ti deve dare lavoro (cioè pagarti per quello che produci) si comporta come i nostri bravi genitori: vuole uno specialista.

Ci sono fotografi che fanno solo “food” o fotografano solo vestiti e sfilate di moda o che eccellono nella foto di “Street”, nel reportage geografico o si dedicano a generi particolari, dalle foto con i droni a quelle subacquee, dalle foto immersive (VR) alle riprese ad alta velocità, sino alla fotografia istantanea su cui ha costruito una carriera ad esempio Maurizio Galimberti.

Insomma, il fotografo deve sapersi presentare con una ben precisa identità e anche se poi magari fa anche altro deve essere riconoscibile per uno specifico campo in cui eccelle o per una tecnica che utilizza senza ripensamenti.

Te li immagini Michael Kenna o Sebastiao Salgado che iniziano a fotografare tramonti infuocati con colori accesi, o a fare fotografie distorte col fish-eye o si dedicano al mosso intenzionale (ICM)? Potrebbero farlo – magari in privato si sono divertiti a farlo – ma provocherebbero dei mal di pancia atroci a galleristi, collezionisti, sponsor e supporters.

Ora, diciamolo subito: la fotografia è di per sé una pratica “multipotenziale”, che si può applicare a molti soggetti diversi e che si può utilizzare per raccontare storie sempre nuove e originali. Difficile annoiarsi, in effetti e non a caso ho intitolato “Il fotografo non si annoia mai” un mio saggio che da anni è bestseller di Amazon (tra i saggi di fotografia, s’intende). Ma comunque il mercato premia i fotografi specialistici, quelli che possano aggiungere un aggettivo al primo termine con cui si presentano: fotografo, e va bene, ma poi bisogna specificare se di paesaggi, di reportage, di moda, di still life, di natura, e così via.

Avendo letto, specialmente in passato, decine di libri sull’argomento, posso garantirti che ci sono pochi casi di fotografi cosiddetti “generalisti” e quasi nessuno che abbia avuto grande successo se non nel campo della fotografia d’archivio (stock). Insomma, a tutti i fotografi sembra che venga continuamente chiesto – come a tutti noi da bambini – cosa vogliano fare “da grandi” e la risposta dev’essere chiara, netta e quasi senza sbavature.

Così, io mi sono allineato e dapprima – lavorando per le riviste – ho prodotto i miei biglietti da visita con su scritto “fotografo di viaggi e turismo”. Termine nel quale non mi riconoscevo, così a voce in verità preferivo definirmi “fotografo di luoghi”, che non significa nulla in effetti.

Successivamente ho preso a definirmi fotografo “paesaggista” alternato ogni tanto con il termine “naturalista”, visto che fotografo molto piante, animali e ambienti naturali. Ogni definizione però mi sembrava falsa, una forzatura, un tradimento. Se guardo ai miei lavori più personali, quasi nessuno di loro rientra in un canone preciso, e preferisco sia così.

Ho ad esempio realizzato un lavoro con fotografie analogiche e stenopeiche dedicato al passato e ai luoghi che lo evocano diventato un libro intitolato “Una Momentanea Eternità”. Successivamente per il Corso BN di Reflex-Mania ho prodotto un libro con fotografie di Natura realizzate in bianco e nero digitale (“La sapienza delle rocce”). E ora sto lavorando a un progetto dedicato al sole e alle piante, basato interamente su tecniche “alternative” e oltretutto a colori intitolato FOTO|SINTESI (se vuoi saperne di più e sostenere il progetto acquistando in anteprima una copia del libro puoi andare nell’apposita pagina del mio sito).

Se avessi un manager personale starebbe sbraitando che non si deve fare così, che un bravo fotografo deve avere un proprio stile personale, essere sempre riconoscibile e fedele alle tecniche, alle modalità, ai soggetti a cui si è sempre dedicato. In fondo avrebbe ragione. Ma a questo punto gli mostrerei un video che anche in Italia ha raggiunto milioni di visualizzazioni e che a me – come a tanti – ha aperto un mondo. Si tratta della conferenza di Emilie Wapnick tenuta nel 2015 a un TED talk e in cui l’imprenditrice, blogger, consulente professionale e scrittrice americana spiega cosa siano le persone “multipotenziali”. La sua conferenza inizia proprio con la domanda con cui ho aperto questo post, quella che ogni genitore rivolge al proprio figlio ancora giovanissimo: che cosa vuoi fare da grande?”.

Le persone multipotenziali hanno una caratteristica: si annoiano a fare solo una cosa. Non amano specializzarsi. Passano da un argomento all’altro, da una materia all’altra. Non eccellono in nessuna di esse ma – e qui sta la loro forza – sanno creare connessioni tra argomenti diversi e questo spesso li porta a essere innovativi, se non geniali. C’è stato un periodo in cui la multipotenzialità era tenuta in grande considerazione: il Rinascimento.

L’Uomo rinascimentale” non era specializzato, anzi: Leonardo da Vinci era scienziato, inventore, architetto, ingegnere, pittore, scultore, letterato e molte altre cose. Una follia oggi, in cui invece domina la specializzazione. L’altro giorno mia moglie ha fatto una visita ortopedica e ha scoperto che esistono medici ortopedici specializzati nella mano o nel piede e dunque se ti fanno male entrambi devi fare due visite distinte!

Per questo i “multipotenziali” sono spesso ostacolati o non compresi, sebbene quasi tutti i grandi innovatori lo siano: Elon Musk potrebbe dedicarsi solo a costruire auto elettriche, ma invece sogna di mandare in orbita i primi “turisti dello Spazio”. E “stay hungry, stay foolish” è un classico motto multipotenziale, sebbene Steve Jobs lo abbia ripreso da una rivista (“The Whole Earth Catalog” edita tra il 1968 e il 1972) e non proprio inventato direttamente. Ma il concetto resta quello di non restringere lo sguardo, ma allargarlo, essere sempre affamati di cose nuove, di idee diverse, perché solo connettendole è possibile innovare davvero.

La visione del video della Wapnick mi ha molto colpito. La verità è che nel corso della mia carriera fotografica ho realizzato davvero di tutto, dalle panoramiche immersive alle mostre in 3D da guardare con gli occhialini, dal Bianco e Nero al colore, dalle antiche tecniche di stampa alle “fotosculture”. E credo sia proprio per questa “plasticità” e adattabilità della fotografia che non ho mai smesso di amare questa forma d’arte e di dedicarvi ogni mia energia. Se avessi scelto una sola modalità e a quella avessi dedicato il mio tempo, probabilmente ora farei tutt’altro.

La conferenza della Wapnick si conclude parlando degli specialisti: sono un male? Assolutamente no! Anzi, essere uno specialista e dunque scendere in profondità su un singolo argomento – se è quello che ami fare – va benissimo. L’importante è sapere che esistono persone che non riusciranno mai a farlo, e anche questo è bene.

Anzi, specialisti e multipotenziali, collaborando, possono creare grandi cose, perché i primi possono dare spessore e concretezza alle idee – a volte apparentemente strampalate – dei secondi. Così, Steve Jobs non avrebbe creato l’iPad o l’iPhone se le sue idee non avessero poi avuto degli ingegneri molto specializzati (e capaci) in grado di dar loro concretezza.

Dunque, sarebbe ora che la smettessimo di cercare a tutti i costi una risposta alla domanda da cui siamo partiti e da cui deriva, per quanto ci riguarda, quella altrettanto dolorosa: che tipo di fotografo sono? Io oramai preferisco utilizzare termini generici come “fotografo creativo” o “creatore d’immagini”, ma è solo per comunicare all’esterno.

Dentro di me so che la fotografia è un territorio così vasto, multiforme, affascinante, emozionante che non c’è bisogno di fare altra scelta che non sia quella di avventurarsi per questo vasto territorio senza sentieri. E possibilmente perdersi, senza possibilità alcuna di ritrovare la retta via!

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