
“Il fotografo che ha fatto carriera all’incirca alla stessa guisa dei suoi clienti, manca ugualmente di cultura. Perciò non può fare altro se non quello che hanno fatto i suoi predecessori. Scimmiotta i generi accettati. Si limita a trasportare nell’arte fotografica le abitudini estetiche che predominano nella massa” scrive Giselle Freund in “Fotografia e Società” (1974), riferendosi ai primi fotografi della storia, anche se sembra parlare di quelli di oggi.
Si trattava in genere di pittori che – avendo perso il proprio lavoro di ritrattisti a causa della nuova arte – si riciclavano mutuando dalla pittura sia l’iconografia che le ambientazioni, a volte anche la resa delle luci e delle texture oppure ideando tutta una serie di tecniche in grado ci compiacere i nuovi clienti: “Il borghese che tiene molto ad avere aspetto gradevole, fa nascere una tecnica capace di eliminare dalla sua immagine tutti i particolari spiacevoli che la semplice posa non riusciva a dissimulare … E’ il ritocco. Dopo il 1860 comparvero i primi obiettivi anastigmatici che si distinguevano per una nitidezza fino ad allora ignota e favorivano lo sviluppo del ritocco“. Insomma, Photoshop – in qualche modo – è sempre esistito.
Il noto fotografo Disderi, inventore delle piccole immagini dette “carte de visite” e attivo a Parigi nella seconda metà dell’Ottocento – sebbene fosse nato in Italia – definiva “le qualità di una buona fotografia in base a questi criteri: 1. Fisionomia gradevole; 2. nitidezza generale; 3. scuri, mezze tinte e chiari ben delineati, i chiari brillanti; 4. proporzioni naturali; 5. accuratezza di particolari nei neri; 6. bellezza“.
Leggendo questi passi della Freund si rimane colpiti da come, in fondo, sembra di essere tornati a quell’epoca pioneristica e ancora immatura, quasi che i 180 anni trascorsi dall’invenzione della fotografia siano passati invano. Decenni di discussioni sul ruolo che la nuova arte dovesse avere rispetto a quanto prodotto sino ad allora dalla pittura, dalla scultura dalla grafica, le accese polemiche sulla natura stessa del medium, sul suo essere vera arte o meno, e poi le avanguardie, le neoavanguardie, il modernismo, il postmodernismo, tutto, tutto sembra quasi dimenticato anche solo accedendo a Internet e scorrendo rapidamente qualche Social o anche molti siti di fotografia.
Quel che vediamo sono di nuovo “borghesi” che cercano disperatamente di avere un bell’aspetto grazie al ritocco, reso facile – e a volte imbarazzante – da numerose app disponibili subito dopo lo scatto direttamente nello Smartphone, al punto che – come un secolo e mezzo fa – si fa fatica a capire se davvero quello sia l’aspetto della persona ritratta. Spesso non lo è.
La differenza sostanziale è semplicemente nel fatto che non si va più dal fotografo professionista per farsi fare il ritratto – anzi, da questo punto di vista si tratta di una figura praticamente scomparsa – piuttosto si pratica la tecnica del “selfie” (con postproduzione spinta) o al più si chiede all’amico di scattarci una foto mentre sorridiamo dinanzi “uno splendido panorama”. E’ tutto molto, molto ottocentesco. Montagne di tecnologia per tornare a fare quello che – decisamente meglio – facevano Nadar, Disderi e tutti gli altri fotografi nemmeno vent’anni dopo l’invenzione della fotografia.
La Storia è una buona maestra, ma noi siamo pessimi alunni, senza dubbio.
Naturalmente sto parlando del “mainstream”, nel senso che è ovvio – e sottinteso – che ci sono tantissimi fotografi che fanno tutt’altro, che sono creativi, originali, antiaccademici, ma la verità è che sul gusto complessivo incidono pochissimo. Tutti sono pronti ad ammirarli e a tesserne le lodi, ma poi non si lasciano ispirare dal loro approccio, non si sentono cambiati dalle fotografie che producono.
Si può visitare una mostra di Pellegrin, di Koudelka, di Salgado e subito dopo scattarsi un “selfie” (uno in più dei 93 milioni che si stima vengano scattati ogni giorno) dinanzi l’ingresso della mostra stessa, postandolo su Facebook con la frase di circostanza “mostra grandiosa, da vedere!”. Un comportamento che mi lascia sempre perplesso, e non lo dico solo perché mi fanno orrore i selfie: è che sembra così in contrasto con quello che, nella mostra, si è potuto ammirare e auspicabilmente comprendere.
La verità è che la Neoaccademia fotografica si alimenta di questo substrato triviale – e so di farmi dei nemici a dirlo, ma tanto anche mia moglie mi odia quando mi rifiuto di realizzare un autoscatto durante qualche gita – per cui la banalità si eleva ad arte e a quel punto anche la solita foto di un paesaggio privo di inventiva ma con un bel cielo al tramonto diventa il metro di giudizio con cui valutare se una foto è riuscita o meno.
Qualcuno potrebbe osservare, me ne rendo conto, che è sempre stato così, non solo nell’Ottocento. Si e no.
La difficoltà che poneva lo scattare foto su pellicola comunque spingeva a valutare con attenzione quel che si riprendeva e perché. Certo, si realizzavano foto ricordo, c’erano le Instamatic e le compatte, ma quello era un mondo che nemmeno si definiva “fotografico”, che nemmeno si poneva la questione “dell’estetica”, lo scopo era solo l’album dei ricordi. Oggi no: la foto ricordo la si eleva al rango di scatto interessante, da mostrare Urbi et Orbi, degno di essere condiviso. E poco importa che nel mare magnum degli oltre 1000 miliardi di fotografie che si scattano ogni anno nel mondo (incredibile!) il tutto si perda presto in un flusso senza capo né coda: quelle tracce flebili restano e nei giovani – che sono su Internet anche 7 ore al giorno – si decantano e impediscono o rallentano la nascita di nuovi fotografi consapevoli, cosa che avveniva anche solo trent’anni fa grazie ai sistemi di diffusione archeologici – ma mediati – come le riviste e i libri.
L’eccesso di informazioni e di immagini uccide la sensibilità e la fantasia. Ogni volta che si ha un’idea e per sbaglio si fa una verifica online, si viene risucchiati in quel vortice di “già visto” e “già fatto” che non aiuta affatto: oggi come oggi non è l’inventare cose nuove a fare davvero la differenza, è l’utilizzare in senso originale e antiaccademico tutto quello che sappiamo già, tutte le tecniche già inventate e utilizzate.
Devi credermi: tutto, tutto è stato già sperimentato, inventato, utilizzato. Non c’è tecnica che non sia stata piegata ai voleri di un qualche fotografo. Personalmente ho “inventato” almeno cinque o sei tecniche fotografiche di cui ero molto orgoglioso, tranne poi scoprire che in qualche remoto angolo del mondo altri avevano fatto le stesse cose. Accadeva anche prima, ma non c’era Internet e non lo scoprivi (quasi) mai. Oggi non si sfugge.
C’è solo una cosa davvero originale e unica, inimitabile: la tua personalità, sensibilità, cultura. Per questo non è la tecnica utilizzata ad essere davvero importante, è quel che racconti, le emozioni che riesci a trasmettere, il riflesso di te stesso che metti nel tuo progetto. Non “scimmiottare i generi accettati” come facevano i fotografi ottocenteschi citati dalla Freund, non seguire il profondo solco scavato da chi ti ha preceduto sinora. Esci dal seminato, trova una strada che sia tutta tua. A quel punto la Neoaccademia fatta di foto lucide, laccate, colorate, splendenti, perfette avrà perso – almeno con te – la sua battaglia.
Non fare foto “come quelli bravi”: quelli bravi, oggi, fanno foto sempre uguali! Invece, scatta fotografie per come senti di doverle scattare, segui l’impulso della tua sensibilità, non quello di qualche Social “fotografico”.
Davvero, è l’unico antidoto.