Il teleobiettivo di Paul Virilio

Ogni buon fotografo sa bene che un obiettivo grandangolare “allontana” i soggetti, ma nello stesso tempo ne mette dentro parecchi, mentre un teleobiettivo “avvicina” i soggetti, però li seleziona, inserendone nell’inquadratura molto pochi. Insomma, il grandangolare è descrittivo, il tele è selettivo.

Questo, in fondo, è parte del linguaggio stesso della fotografia, che “parla” anche attraverso precise scelte dell’angolo di campo. Non a caso per decenni i fotografi, soprattutto di reportage ma non solo, amavano il “normale” e spesso utilizzavano solo quello: una buona via di mezzo, che mostrava il necessario senza esagerare. Per “selezionare”, poi, bastavano due paia di buone gambe: avvicinarsi o allontanarsi – fisicamente – era lo zoom di una volta. Una tecnica dimenticata, oramai.

Ma astraendo dal campo puramente fotografico e rimanendo nel settore dell’arte, quello a cui assistiamo oggi, nel XXI secolo, è un progressivo “accecamento”, una crescente incapacità di vedere davvero perché si è sempre troppo lontani, sempre collegati attraverso una modalità telescopica.

L’oggettività è diventata una teleobiettività” scriveva già nel 2004 il filosofo Paul Virilio, famoso per i suoi studi sullo sviluppo della tecnologia e i suoi effetti sull’uomo.

L’arte dell’accecamento” è appunto il titolo di un suo libricino da cui emergono intuizioni felici e illuminazioni che mi hanno affascinato. Anche e soprattutto come fotografo, cioè di fatto come operatore di un campo – potremmo definirlo genericamente delle arti visive, ma dominato dai video – che è coinvolto in prima fila da questa evoluzione (se di evoluzione si tratta) della società.

Virilio sostiene che viviamo nell’epoca del “vedere senza andare a vedere“, del percepire senza esserci veramente, eppure costantemente intenta a far finta di guardare, a debita distanza telescopica, come nello slogan dell’agenzia Corbis fondata nel 1989 da Bill Gates: “Noi siamo ovunque guardiate. Sempre e in ogni luogo del mondo“.

Dilatazione scopica” la definisce Virilio: senza spostarci dal nostro punto di osservazione, guardare al mondo ed essere sempre presenti, ovunque, in ogni istante, pensando in tal modo di riuscire a “capire”, quando invece siamo accecati dalla distanza, anche emotiva, che ci separa da ciò che avviene, spesso anche solo dietro casa. Questo, invece di rassicurarci, ci spaventa: è dai tempi della Guerra Fredda che la società occidentale è una società dominata dalla paura e, come sosteneva Albert Camus, “il lungo dialogo tra gli uomini si è interrotto. Un uomo che non si può persuadere è un uomo che ha paura“.

Frase particolarmente di attualità in quest’epoca di pandemia e di guerra.

Nel corso del tempo, l’arte, il cinema, la letteratura e anche la fotografia hanno alimentato il senso di “panico” costante, di dissoluzione delle certezze, insinuando il dubbio – mascherato da senso critico – e pilotando la nostra percezione verso gli spazi dell’indeterminato: quel che serviva a rivelare – in senso epifanico – diventa invece una sorta di velo di Maja impossibile da superare.

A dimostrazione di questa tendenza a guardare le cose da lontano, da un lato per estetizzarle, dall’altro per nasconderne le implicazioni più “umane”, Virilio porta ad esempio le riprese, cinematografiche e fotografiche, fatte dall’alto. Già Nadar, alla metà dell’ottocento, riprese Parigi da un pallone aerostatico e da allora la rincorsa a questo guardare verso terra da un punto di vista elevato non ha conosciuto ostacoli, fino ad arrivare ai satelliti.

Invece di osservare la linea che divide il cielo dalla Terra , si osserva la superficie… come un tempo si contemplavano le stelle” scrive il filosofo francese. Consideriamo che il saggio è scritto in un’epoca in cui non era ancora iniziata la moda dei droni: oggi chiunque può riprendere la superficie dall’alto, scattare fotografie o fare riprese “creative” in cui però il punto di vista è quasi sempre al nadir, direttamente verso il basso. In tal modo non si comprende di più, si vedono solo più cose, spesso semplicemente effetti grafici, o contrapposizioni di colore.

E l’arte contemporanea questa ricerca della distanza l’aveva già iniziata da tempo, come scrive Marek Halter a proposito di Jackson Pollock: “il primo ad aver abbandonato il cavalletto, una volta posta la tela per terra per cogliere il quadro dall’alto. E’ come un paesaggio visto dall’aereo“.

Il punto è, come sottolinea Virilio, che oggi le persone non vogliono vedere, ma essere viste, e dunque la fotografia – nel nostro caso – diventa il mezzo per farsi notare, per cercare di emergere dalla massa, cosa ottenibile principalmente attraverso immagini che non siano controverse, rivelatrici, significative, ma semplicemente estetizzanti, e che anzi, come certa architettura contemporanea fatta di vetri e trasparenze, di cavi e superfici sottili, diventino quasi invisibili, puro supporto per effetti in grado di “colpire” lo spettatore. Di fatto rinunciando al ruolo che la fotografia, e l’arte in generale, ha sempre avuto, di essere “sguardo reso materia”, dunque qualcosa di rivelatore.

I fotografi erano quelli che rendevano visibile l’invisibile, oggi spesso si limitano a rendere più bello quel che è sotto gli occhi di tutti.

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