
Uno degli indubbi vantaggi della pittura rispetto alla fotografia, è l’indipendenza rispetto al soggetto.
Poco importa dove ti trovi, se al mare, in montagna, in città, al chiuso o all’aperto: puoi sempre inventarti un paesaggio, un volto, un oggetto, creare un avvenimento – e anche fare un dipinto astratto, s’intende.
Hai davanti a te una tela bianca, dei pennelli e i tuoi colori, e infinite possibilità. Il limite è davvero solo la fantasia, non devi spezzarti la schiena portando chili di attrezzatura su e giù per sentieri di montagna, non devi viaggiare per mezzo mondo, scovare un soggetto e fotografarlo.
Puoi anche startene in canottiera e ciabatte sotto il solleone d’agosto e dipingere una tempesta di neve in pieno Polo Sud, con tanto di pinguini appena visibili dietro un muro di fiocchi candidi (si potrebbe anche fare il contrario, ma la vedo più difficile).
Gran bella vita, quella dei pittori.
Noi fotografi, per colpa di questa maledetta “natura indicale” del mezzo espressivo che abbiamo scelto, non possiamo evitare di essere nel posto che vogliamo ritrarre. O almeno, era così fino a non molto tempo fa.
Oggi la fotografia somiglia sempre di più alla pittura, e se questo rende la vita più facile a molti autori, non sono certo sia davvero un progresso. E nemmeno sono sicuro si possa parlare ancora di “fotografia”.
Si prende un cielo là, un paesaggio qua, un dettaglio da una foto, un pezzetto da un’altra immagine: si può navigare nel nostro stesso archivio, o pescare con poca spesa negli archivi fotografici “Royalty Free”, dove oramai si trova davvero di tutto, per pochi centesimi. Poi si passa per un software – a cominciare da Photoshop – e con pazienza si monta il tutto ottenendo realtà inesistenti, ma che sembrano vere.
E sembreranno vere a chi le guarderà: in fondo, si tratta di una fotografia.
Poi c’è la CGI (Computer Generated Images), una tecnologia che oramai è alla portata di tutti, con la quale non abbiamo più nemmeno bisogno di creare dei collages di pezzi sparsi: possiamo, da zero, creare interi mondi, come si fa usualmente nei film di fantascienza.
Interi settori della “fotografia” sono dominati da questa modalità: ad esempio le fotografie di auto da tempo non sono più vere fotografie, ma rendering CGI, magari inseriti in paesaggi veri. Fotografare un’automobile è complesso: gestire le luci, i riflessi, la pulizia, la resa perfetta di ogni dettaglio. Ma facendo tutto al computer, la perfezione è assicurata.
Insomma, il fotografo è oramai libero di creare la propria personale realtà: può starsene in bermuda e sandali infradito sulla spiaggia e “fotografare” la stessa tempesta di neve con pinguini del pittore, col vantaggio che la gente crederà davvero che lui sia stato al Polo Sud, mentre al pittore non ci crederà nessuno. Tiè!
E’ il sogno dei Pittorialisti, ma al cubo.
Ne ho parlato diverse volte di questo aspetto della “fotografia”, sia nei miei libri che nei miei post. Il mio non vuole essere un pregiudizio. Ho praticato io stesso la Digital Art, creato collage digitali, elaborato foto in modo estremo, e ho anche fatto una mostra (a via Giulia, a Roma) con queste immagini. Ma non le ho mai definite fotografie. Lo sono state, ma ora sono altro.
Non ritengo che la Digital Art sia inferiore alla fotografia, anzi; i maestri della CGI sono degli autentici geni, e molte delle loro opere le trovo straordinarie, e di grande valore, sia artistico che comunicativo. Ma, ribadisco, per me non sono fotografie, lo sembrano solo. Perché il rapporto con la realtà e col soggetto, per come la vedo io, è dirimente.
Invece su Internet – e nello specifico su Facebook – vedo troppo spesso che i due ambiti vengono confusi. Vedo concorsi di fotografia in cui si premiano immagini che di “fotografico” hanno davvero poco, se non le sembianze.
Ma sono talmente postprodotte e rielaborate da non essere più davvero fotografie. Non solo: anche all’interno di siti o pagine Facebook di associazioni come la Fiaf, “fotografie” create grazie a softwares vengono accostate a immagini “dirette”, il che lascia perplessi.
Si dirà: ma anche Man Ray, Herbert Bayer, Angus McBean e tanti autori della scuola russa o tedesca (come i Dada) hanno creato immagini grazie a collage di fotografie, magari con scritte e parti dipinte, eppure rientrano nel campo della “fotografia”. E Jerry Uelsmann creava mondi inesistenti con fotomontaggi di pura virtuosità in camera oscura. Vero, verissimo.

decoupage fotografico
Ed infatti la discussione su cosa si possa o non si possa considerare fotografia va avanti da tempi immemorabili, e forse non arriverà mai a una risposta definitiva.
Tuttavia la frequenza con cui certe immagini sono oggi condivise, accettate e diffuse, rende la questione molto più evidente e degna di riflessione.
Non cercherò nemmeno di dare una risposta definitiva, ma questa abbondanza di fotografie leccate, perfette, tutte uguali, costruite a tavolino inseguendo un rigore formale assoluto, con risultati che sfociano nella grafica, nell’illustrazione, mi spinge a ripensare alla considerazione che fece Michael Kenna in una intervista un po’ di tempo fa.
Il grande fotografo britannico sosteneva infatti che la fotografia dovesse essere una sorta di collaborazione tra il fotografo e la realtà fotografata, tra il fotografo e il caso. Si schierava contro la previsualizzazione e a favore dell’effetto sorpresa.
Insomma, occorrerebbe lasciare sempre uno spazio a ciò che non può essere controllato. Per questo Kenna fotografa spesso di notte: con i tempi di scatto molto lunghi non sai mai come risulterà la foto. E lavorando in analogico, non lo saprai sino al momento dello sviluppo. L’incubo di ogni fotografo digitale diventa il grande pregio di una fotografia in cui il caso è artefice quanto il fotografo stesso.
Ci deve essere un elemento imponderabile, non tutto dovrebbe essere prevedibile. E anche se col digitale la risposta arriva dopo pochi istanti, è comunque una risposta parziale. Solo quando si vedrà la foto sul monitor del computer si potrà esser certi di aver conseguito il risultato cercato. Valutare la foto dal display della fotocamera è una follia, e sono certo che anche a te sarà capitato spesso di essere convinto di aver realizzato uno scatto fantastico per scoprire poi che invece lo si poteva tranquillamente cestinare.
E confesso che quel che amo di più dell’analogico è proprio questa attesa del risultato. In fondo anche il più accanito dei “previsualizzatori”, cioè Ansel Adams, confessava di trepidare nell’attesa di sviluppare la lastra scattata sul campo. Che sarà venuto fuori? Dunque, del risultato nemmeno lui era davvero così certo.
Il digitale ci ha dato tanto, tantissimo. Ma altrettanto ci ha tolto. Credo davvero che spetti a noi cercare – e auspicabilmente trovare – il giusto equilibrio tra invenzione, fantasia e realtà, tra caso e controllo, tra finzione e camuffamento. Non è certo facile, ma presumo sia possibile.
Almeno, lo spero.