Le Regole della Fotografia e il Fotografo

Quando un indicatore economico e finanziario diviene esso stesso un obiettivo, nel senso che viene fissato preventivamente, smette di essere un buon e valido indicatore“, o anche “quando un parametro dell’economia è selezionato per diventare un indicatore economico, quel parametro cessa automaticamente di funzionare come indicatore perché le persone iniziano ad agire conoscendo la rilevanza di quell’indicatore, falsando i dati che ne alimentano la misura“.

In sintesi questa è la cosiddetta legge di Goodhart, formulata negli anni Settanta da Charles Goodhart, un consulente della Bank of England e professore alla London School of Economics.

In pratica se una qualsiasi istituzione pubblica (Banca Centrale, UE, Governo…) tende a regolare il valore di certi asset, creando distorsioni di mercato, questi non saranno più un indicatore delle reali tendenze economiche.

Ora, io di economia ci capisco poco o nulla, ma questa “legge” mi ha fatto riflettere molto, perché a fronte di una tendenza ovvia alla regolamentazione – che serve ad evitare il caos sui mercati e a ridurre le possibili speculazioni – quel che si ottiene è per assurdo di perdere completamente di vista l’effetto che tali regole possono avere sul mercato stesso, dato che chiunque possa farlo tenderà a scansare le regole, a scavalcarle, o viceversa – e più di frequente – a utilizzarle a proprio vantaggio. Si finisce insomma per non sapere più bene cosa stia accadendo, e perché accada.

Mi dirai: che c’entra questo con la fotografia?

Beh, la suddetta legge mi permette di tornare su un argomento a cui tengo in modo particolare. Dunque ammettiamo per un attimo che si possa formulare una nuova legge della fotografia (chiamiamola di Goodhart-Scataglini, va) che reciti più o meno:

quando un parametro della fotografia è selezionato per diventare un indicatore della validità delle fotografie che lo rispettano, quel parametro cessa automaticamente di funzionare come indicatore di tale validità, visto che i fotografi iniziano ad utilizzarlo conoscendone la rilevanza, creando di conseguenza un appiattimento creativo“.

Non suona male in fondo. Ma soprattutto, è una “legge” che funziona, eccome.

Da quando è stata inventata, la fotografia è stata percepita come qualcosa che andava “normato”: dapprima mutuando le norme dalla pittura, successivamente cercando regole e regolette (pratiche, esposimetriche, compositive, contenutistiche) in grado di dare l’esatta percezione di “una foto ben fatta”.

A quel punto per valutare un autore, per comprendere la sua rilevanza, bastava applicare la norma e verificarne il rispetto, e il gioco era fatto.

Se il parametro scelto era la composizione, ecco che tutto ciò che non rispettava la regola dei terzi o le norme accettate della buona composizione era giocoforza sbagliato e da scartare.

Ma siccome questo – secondo la legge Goodhart-Scataglini – “provoca un appiattimento creativo“, in quanto la massa dei fotografi si adegua al rispetto delle regole accettate o almeno prova a farlo riconoscendone l’importanza, ecco che il parametro scelto non indica più la qualità di una foto o di un autore ma solo la sua popolarità o “accettabilità” diffusa.

In realtà, anzi, diviene un parametro al negativo: solo chi ha il coraggio di svicolare dalla norma, o trova il modo di aggirarla, è davvero creativo, davvero un autore valido e originale. Ma spesso non viene riconosciuto, se non in ambiti molto ristretti.

Le regole in fotografia

Cosa voglio dire? Che le regole in fotografia – e in tutte le forme d’arte – sono un serio ostacolo allo sviluppo di uno sguardo libero da condizionamenti e realmente interessante. Le regole esistono per delimitare degli spazi, per fornire un punto di riferimento, vanno conosciute e poi dimenticate, utilizzate in modo libero magari, ma senza mai pensare che una regola possa diventare un parametro di giudizio.

Altrimenti una larga fetta della fotografia degli ultimi 50 anni sarebbe – se non da buttare – almeno da rimettere completamente in discussione.

Ma in verità oggi quel che si tende a fare è esattamente quello che la citata (finta) legge vorrebbe evitare. Grazie alla tecnologia, che stabilisce a priori come una foto debba essere, cioè come debba apparire una foto corretta, e grazie a Internet su cui dilagano tutorial che dicono passo passo come vada realizzata una foto destinata al successo, la fotografia sta diventando noiosa come certi testi di “Diritto Privato” delle facoltà di legge.

E in effetti i fotografi sembrano tutti avvocati di se stessi (manca solo il parrucchino) sempre a battibeccare con improbabili giudici sul filo delle norme rispettate e sulla bontà di una fotografia realizzata “a regola d’arte”.

Sto leggendo, in questi giorni, un libro interessantissimo, intitolato “L’errore fotografico” (di Clément Chéroux, Piccola Biblioteca Einaudi). Il fatto è che per comprendere la fotografia, per percepirne sino in fondo le potenzialità e le possibilità, e anche per crescere come autori, abbiamo bisogno disperatamente degli errori.

L’errore non è il male, anzi il contrario: è l’antidoto alle regole, alle norme assegnate, perché ci fa intravvedere una possibile via di fuga. Gli esempi possono essere molteplici, e io stesso ho “inventato” procedure nuove partendo da sbagli commessi involontariamente.

«Per quali motivi una fotografia viene giudicata errata? … Una fotografia viene considerata errata in rapporto a una regola prestabilita… Generalmente decretata dai fotografi professionisti della fotografia: le industrie che la fabbricano, i laboratori che la trattano, gli esercizi che la vendono» scrive Chéroux.

Ma dagli anni ’90 in poi un certo modo di intendere la fotografia ha sfruttato tali errori fotografici considerati tipici dei dilettanti per creare un’originale iconografia, assai utilizzata nel campo ad esempio della moda. Tra i nomi più noti ci sono Terry Richardson, Jurgen Teller e Wolfgang Tillmans. E’ quella che viene chiamata “estetica dell’imperfezione”, o “tendenza trash” e addirittura “antifotografia”. Ma la verità è che l’errore fotografico è una ricchezza, qualcosa che fa avanzare la fotografia, che fa scoprire strade nuove, precedentemente ignorate.

Basterà citare l’esempio di Jacques-Henry Lartigue che nel 1913 fotografò un’auto da corsa con distorsioni che all’epoca l’autore stesso considerò inaccettabili, tranne poi – negli anni ‘50 – riscoprire la foto che poi diventerà una vera e propria icona della fotografia. Non male per una foto «da buttare»!

Jacques-Henry Lartigue auto da corsa con distorsioni

Ma credo che la scoperta dell’effetto Sabattier (o pseudosolarizzazione) fatta da Man Ray, che poi la sfruttò sapientemente in molte sue opere, sia forse il più calzante. E non a caso quasi tutti gli errori fotografici nascono in epoca analogica: l’analogico è fatto per sbagliare.

effetto sabbatier

Ho un sacco di negativi con errori di sviluppo (una foto con evidenti macchie dovute a un errore di sviluppo l’ho inserita nel mio ultimo libro “Una Momentanea Eternità“, ed è una delle mie preferite), e spesso sono stato ben felice di tali errori.

Capanna di Sasso – Fotografia analogica (Obiettivo Holga su box e lastra pellicola ortocromatica)

Ma col digitale si sbaglia poco, pochissimo, a meno di non farlo apposta (e non è la stessa cosa).

L’effetto sorpresa, la serendipità, l’happy accident, l’evento fortuito che fine faranno? Tutti diventano bravi in poco tempo, non “sbagliano più”, mentre credo che i grandi fotografi siano tali perché si ergono dall’alto dei mille errori che hanno commesso, dalle montagne di negativi e diapositive buttati e finiti al macero.

Ma oggi amiamo la perfezione, amiamo le norme e le regolette, meglio se sono le macchine a dettarle, anzi a rispettarle in automatico.

Sarà per questo che da un po’ di tempo non vediamo più nascere “maestri” della fotografia? Chissà. Ma intanto, se il parametro scelto per decidere chi sia il grande fotografo o invece lo scattino della domenica è la perfezione tecnica, sarà bene ricordarsi della legge “Goodharts-Scataglini“!

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