
Il termine Remediation (“rimediazione” in italiano) – come scrive Anna Maria Monteverdi nel volume “Davanti a una fotografia”- fa riferimento a quel fenomeno per cui “nel momento in cui un nuovo mezzo di comunicazione appare sul mercato, questo si manifesta anche attraverso un’appropriazione o negoziazione delle modalità, dei segni distintivi, dei codici artistici ed estetici dei mezzi che lo hanno preceduto. Una sorta di riorganizzazione delle forme comunicative per cui un medium non scompare del tutto. La remediation non è altro, quindi, che la competizione tra vecchi e nuovi media, ma anche il rimodellamento di tutti i media (o di alcune caratteristiche di essi) solo apparentemente tra loro inconciliabili o incompatibili”.
Le “rimediazioni” si sono succedute dal Rinascimento a oggi e, per quel che ci riguarda, possiamo ad esempio affermare che la fotografia ha operato una rimediazione sulla pittura, così come il cinema l’ha fatta sul teatro.
In verità, ogni volta che un nuovo strumento s’impone, cerca di inserirsi in quella che è stata la “tradizione” sino a quel punto, modellandola però secondo le rinnovate esigenze. Il fatto è che spesso non se ne distacca davvero, dando vita a una tecnologia davvero “nuova” (“disruptive” come si dice in gergo tecnico) ma si limita a renderla più efficiente, facile, accessibile, potente o anche più economica o sostenibile dal punto di vista ambientale.
Un’automobile elettrica certamente inquina meno di una vettura endotermica, è più facile da costruire e gestire e ha molti altri vantaggi (e qualche svantaggio) ma non sta affatto rimodellando “l’oggetto automobile”, che di fatto resta lo stesso. Ci sono stati esperimenti che vanno oltre questo limite e penso ad esempio ai tricicli elettrici (auto a tre ruote) che invece di riproporre il solito modello però aggiornato cercano di reinventare l’automobile. Sinora, però, non sembrano aver avuto grande successo.
Se questo avviene con la tecnologia “classica”, c’è da dire che con gli strumenti comunicativi e artistici le cose vanno in modo almeno parzialmente diverso. Viviamo in un mondo in cui la “comunicazione” è forse la cosa più importante di tutte, sia che serva ad emozionare, sia che la si utilizzi per vendere delle merci o per influenzare gli elettori.
Perciò ben potremmo chiederci – visto che di questo in particolare ci occupiamo – se la fotografia digitale sia davvero una “remediation” della classica fotografia argentica.
Non direttamente: lo è solo se la mettiamo in connessione con i nuovi strumenti di comunicazione di massa, dunque i Social e Internet in generale. Nei primi anni in cui ho utilizzato la fotografia digitale, diciamo dal 2002 almeno sino al 2006, francamente, a parte la comodità di scaricare le foto su un PC invece di portarle a sviluppare in un laboratorio, non mi è sembrato di operare diversamente dal solito. Ancora oggi, a dire il vero, utilizzando sia l’analogico che il digitale, faccio fatica a vedere delle differenze concettuali: la comunicazione è la stessa, la creatività necessaria idem.
Ma nel frattempo qualcosa è successo: le foto non vivono più tanto sui libri o sui muri delle mostre, vivono online. A volte restano completamente intrappolate in un contesto digitale: le si realizza con uno smartphone e sono subito condivise, senza mai uscire da un ambito totalmente virtuale. E’ lì che scatta la ri-mediazione della fotografia, nell’aspetto della condivisione, un tempo fisica e cartacea, oggi tutt’altro.
Il nuovo strumento, mettiamocelo bene in testa, non è la fotografia digitale, bensì il metodo di fruizione della fotografia stessa.
Questo dovrebbe far pulizia degli infiniti dibattiti sui “due medium” analogico/digitale – con considerazioni assurde su quale sia “il migliore” – e dovrebbe permetterci di rivolgere la nostra attenzione sulla vera rivoluzione, tra l’altro non necessariamente positiva.
La “fotografia liquida” è probabilmente un dato acquisito, e a rafforzare questo fatto è intervenuto un virus chiamato Covid-19 che ha reso la nostra realtà ancora più virtuale, in ogni campo, dalla didattica al lavoro, dal video alla fotografia.
Ci sono Enti – ma anche singoli artisti – che non potendo organizzare mostre in presenza, le organizzano in modo virtuale con tanto di quadri appesi alle pareti, ma pareti fatte di pixel. Molti festival della fotografia hanno fatto lo stesso. E le presentazioni di libri fotografici o progetti si fanno in diretta streaming. Tutti noi siamo convinti che, passata la pandemia, tutto tornerà come prima, che si ricomincerà a visitare musei, gallerie e circoli fotografici. Sicuramente sarà così, almeno lo spero.
Tuttavia il cambiamento che questi due anni di reclusione alla fine avranno innescato non sarà facilmente superabile. Molti si stanno abituando a queste modalità tecnologicamente avanzate, alla “rimediazione” della fruizione dell’arte, per cui – esclusi forse gli appassionati come noi – molti potrebbero trovarsi “disabituati” al vivere la realtà in modo diretto, non mediato, appunto. I primi segnali già si vedono.
D’altra parte – inevitabilmente – le attività economiche che hanno avuto la possibilità di crescere in questi mesi grazie proprio alla pandemia, e penso in particolare a coloro che si occupano di digitale, non intendono certo perdere quote di mercato permettendo al pubblico di avere l’impressione che la realtà vera sia migliore di quella elettronica!
Ci sono oggi persone che acquistano lotti di terreno su “Earth 2”, una Terra virtuale che riproduce quella su cui poggiamo i piedi, con soldi tutt’altro che virtuali. Come possedere qualcosa che esiste solo all’interno di una rete di server possa dare soddisfazione è difficile comprenderlo, eppure questa operazione sta conoscendo un grande successo.
E forse non ti sarà sfuggita la notizia della vendita record (100.000 dollaroni sonanti!) sborsati per un “gattino virtuale” sul sito cryptokitties, dove appunto puoi acquistare dei gattini e poi crescerli e allevarli con “amore” in una realtà del tutto virtuale.
Si tratta solo della punta di un Iceberg molto più ampio – e sommerso – come quello della vendita di arte virtuale: grazie alla tecnologia delle “blockchain” è possibile possedere in via esclusiva qualcosa che esiste solo sulla Rete. La logica di fondo è quella dei bitcoin, ma non parliamo di denaro ma di dipinti, sculture e fotografie che mai potranno esistere al di fuori di Internet, ma che vengono acquistate concretamente, per il gusto di possederle e fruirne attraverso un monitor. Ti scorre un brivido lungo la schiena?
Già oggi, ma ancor più in un futuro prossimo, non solo potremo guardare le fotografie sul monitor del nostro computer, potremo anche acquistarle senza che però questo significhi ricevere a casa una stampa su carta: semplicemente quell’opera online sarà solo nostra, solo noi la potremo mostrare agli altri o tenerla solo per il nostro egoistico piacere.
Se un’opera è concepita, spesso realizzata e soprattutto venduta esclusivamente in un ambiente virtuale, le gallerie di domani saranno a loro volta virtuali e così l’arte del futuro.
A dire il vero, al momento, molti dei siti che puntano a questo mercato consentono il download dell’opera acquistata, ma presto la proprietà delle stesse sarà solo virtuale: così, potremo mettere in vendita online la nostra foto e l’acquirente se ne conquisterà l’uso esclusivo. Noi stessi non potremo più diffonderla o utilizzarla. Semplice vero?
In questi giorni di chiusure, gran parte dei musei italiani si è attrezzato per visite virtuali e anche questo va a “ri-mediare” la nostra percezione dell’arte. Ad esempio possiamo studiare nei minimi dettagli “L’ultima cena” di Leonardo grazie a una foto ad altissima definizione. Come la cappella degli Scrovegni di Giotto, quest’opera famosissima può essere fruita per piccoli gruppi e per tempi limitati. Invece la realtà virtuale ti permette di gustartele per ore, ingrandendo ogni dettaglio, anche il più invisibile. Mi dirai “ma non è la stessa cosa!”. Davvero?
Infatti non lo è: per conoscere l’opera in profondità, la versione digitale è migliore di quella in presenza! In un’epoca in cui “l’esperienziale” perde interesse e potenza, il “virtuale” ha gioco facile, perché è comodo, efficiente, veloce e senza rischi. Io stesso non posso negare che navigare sul sito Haltadefinizione e osservare le foto con dettagli incredibili sia qualcosa di unico: mai e poi mai in un museo potresti avvicinarti così a un’opera e osservare il particolare delle labbra che si toccano nel famoso dipinto “Il Bacio” di Francesco Hayez (1859), oppure osservare l’occhio della Venere dipinta dal Botticelli. Insomma, l’esperienza possibile in modo virtuale supera quella reale per alcuni aspetti, ma fondamentali, e alla fine questo non resta senza conseguenze.
Alla fine, il digitale realizza una “rimediation” del nostro stesso modo di pensare, delle nostre stesse emozioni. Sai che mediamente ognuno di noi “tocca” lo smartphone 2600 volte al giorno? E che possiamo pure restare senza musei, gallerie d’arte, mostre di fotografia, ma mai e poi mai senza il nostro prezioso “device”?
Dunque è vero che il digitale ha cambiato per sempre anche la fotografia, ma non il digitale a cui normalmente si pensa – quello inserito nelle fotocamere – ma quello che sta sempre più prendendo il controllo delle nostre vite e a cui affidiamo con gioiosa incoscienza il nostro avvenire…