
L’epidemia da Coronavirus sta avendo un impatto pesantissimo sia a livello economico che – soprattutto – sociale. Ci sentiamo tutti isolati, distanti e impossibilitati a uscire, passeggiare, visitare luoghi e dunque a fotografare.
Quanto la fotografia è un’attività sociale?
Certo, coloro che amano la fotografia naturalistica e di paesaggio (come il sottoscritto) risentono principalmente del fatto puro e semplice che non si può uscire e andare verso luoghi interessanti a livello fotografico, mentre gli altri sono afflitti dalla mancanza di quei contatti umani che rappresentano il soggetto stesso della loro passione.
Comunque, tutti noi siamo vittime di quella che in gergo tecnico (e psicologico) si chiama FOMO (Fear of Missing Out), paura di “restar tagliati fuori”, una forma di ansia sociale– per dirla con Wikipedia – ”caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone, e dalla paura di essere esclusi da un qualsiasi evento o contesto sociale”.
La fotografia non solo si pratica spesso in compagnia, ma prevede l’interazione con altre persone e, successivamente, forme di condivisione non solo virtuali ma anche concrete, come le mostre o le proiezioni pubbliche. Perciò, ora che tutto questo è vietato – e non sappiamo ancora per quanto – l’ansia ci prende alla gola.
Che ne sarà delle mie proiezioni al Circolo Fotografico? Si dimenticheranno di me? E la mostra che dovevo tenere questo aprile, che fine farà? E via precipitando in un avvitamento di domande destinate a rimanere senza risposta.

La reclusione forzata è l’occasione per arrangiarsi a fare foto con quello che uno trova in casa.
Personalmente non sono affatto immune da questa sindrome. E’ vero che quando fotografo il più delle volte sono da solo, ma è anche vero che il frutto del mio lavoro (specialmente i libri) va poi “portato” al pubblico, e senza potersi incontrare e stare assieme la faccenda non è solo complicata, è proprio impossibile.
Così, ci si organizza con dirette Facebook, videoconferenze, chiacchierate sui social network (SNS, Social Networking Sites, a proposito di acronimi), si registrano video e – in generale – si passa tanto, tanto tempo online, cercando di placare l’ansia derivante dal “non esserci”, dalla paura di essere dimenticati.
Col risultato che l’offerta online è diventata talmente ampia e diversificata che si finisce per non raccapezzarci più, tra corsi gratuiti, conferenze sui grandi fotografi, racconti di avventure fotografiche trascorse o anche semplici chiacchiere da bar, come ai bei tempi.
Un ventaglio di possibilità che normalmente non sarebbe disponibile, certamente non con questa frequenza, al punto che ci prende la frenesia di partecipare a tutto, di dire “parteciperò” cliccando sull’apposito pulsante degli “eventi Facebook”, di commentare – anche se chi tiene la diretta non potrà mai rispondere – di farsi in qualche modo sentire. Hai visto mai si accorgessero che “non c’ero”!
E si finisce per cadere in un’altra paura, quella di rimanere esclusi dal contesto digitale, in italiano detta “nomofobia” e legata in particolare all’uso degli smartphone (da “No Mobile fobia”). In pratica è il terrore che la connessione internet non regga, o abbia un guasto, oppure di trovarsi in una zona senza segnale telefonico o privati dell’amato “device” da cui ora la nostra vita sembra dipendere, e rimanere “isolati”, non più solo da un’utile fonte di informazioni, ma anche dal resto dell’umanità.
La nostra dipendenza dalla tecnologia così come la nostra vulnerabilità davanti un esserino microscopico come un virus è certamente fonte di grandi riflessioni, in questi tempi bui!
E’ bene precisare che la FOMO è una vera malattia psichica, e che la dipendenza – che tanti sottovalutano – può portare a serie conseguenze fisiche, soprattutto tra i più giovani. Ma in forme più lievi io credo che riguardi noi tutti e – come detto – i fotografi ancor di più.
Perché la nostra passione è legata a uno strumento tecnologico che indubbiamente crea dipendenza, da un lato e dall’altro a una metodologia, il digitale, che permette rapidamente di condividere le fotografie e partecipare dunque a questa sorta di mostra fotografica collettiva perenne che è Internet.
In condizioni normali, la pressione che uno subisce è mitigata dalla vita quotidiana (scuola o lavoro, figli, e così via) e dal fatto che possiamo andarcene in giro a fotografare. Internet rappresenta un aspetto piacevole ma non opprimente in tutto questo fluire di esperienze.
Ma ora che tutto è fermo e si sta chiusi in casa, l’unico, apparentemente il solo modo di evadere e proiettarsi fuori è il computer e la connessione ADSL (per chi ce l’ha): il mondo sembra ridursi al bagliore di un monitor.
Ogni cosa esiste solo se passa attraverso un cavo in fibra ottica o un segnale G4. Esistiamo come collettività solo perché siamo tenuti assieme da questa ragnatela (non a caso si dice “web”) di connessioni, in cui viaggiano anche le immagini che abbiamo scattato uno, due o dieci anni fa e che riemergono dai nostri archivi in cui ci immergiamo ansiosi di mostrare che abbiamo altre foto da condividere, che non siamo “scomparsi”.
Poi ci sono quelli (lo faccio anch’io) che si organizzano per continuare a fotografare, magari le conchiglie raccolte anni fa sulla spiaggia e tenute a prender polvere su uno scaffale, o i fiori del giardino, o i dettagli di qualche mobile: qualsiasi cosa, pur di placare l’ansia di non avere foto “nuove” da proporre al nostro pubblico.
Magari sto esagerando, ma scommetto che molti – se si fermassero un attimo a riflettere – si renderebbero conto di essere entrati in questa spirale perversa. Che può essere anche declinata in modo positivo e utile, se solo si diventa consapevoli della FOMO e si cerca di combatterla.
Infatti, la “reclusione” è anche una preziosa occasione di crescita fotografica. Guardarsi intorno, scoprire quel mondo a portata di mano, quotidiano e scontato e a cui dunque non si prestava più attenzione, e fotografarlo con calma e consapevolmente è senza alcun dubbio uno degli esercizi più utili e proficui un fotografo possa fare.
E, a onor del vero, anche navigare nell’archivio delle nostre vecchie foto può farci scoprire dei piccoli tesori che avevamo sottovalutato, e soprattutto rivelarci che in fondo siamo cresciuti, che in questi anni siamo stati in grado di sviluppare nuove capacità, o di scoprire nuovi territori da esplorare; infine, potremmo anche renderci conto che c’è molto da fare, e analizzando quelle vecchie foto diventare consapevoli di cosa cambiare, di dove migliorare.

Alcuni miei autoritratti di qualche anno fa.
Insomma, puntare di più sul fotografico e meno sulla condivisione online; nel contempo, rendere quest’ultima più fruttuosa, evitando di buttar dentro Instagram, Facebook o qualsiasi altro SNS le nostre fotografie, con solo una riga di testo (generalmente un titolo scemo), ma decidendo di inserire immagini a cui teniamo davvero e di raccontarle a coloro che ci seguono.
Non “spiegarle”, ma contestualizzarle, narrando la loro storia e perché per noi sono importanti.
In tal modo, si condivide qualcosa di noi e non soltanto uno scatto datato, o magari nuovo ma poco leggibile; non condividiamo “cose” (e le foto sono oggetti, di fatto, anche semirtuali), ma noi stessi…