
Penso che avrai seguito – come molti – la singolare vicenda delle scarpe (e altri accessori) della Lidl, letteralmente andate a ruba nonostante fossero, diciamocelo, piuttosto dozzinali.
Ora, che delle scarpe colorate e simpatiche, vendute a prezzo conveniente, possano attirare il pubblico, ci sta. Ma che la cosa diventi una vera e propria mania, con assembramenti (pericolosi e vietati in epoca Covid) e litigi stile “Black Friday” americano, sembra davvero singolare. Anzi, anomalo.
Molti si sono dedicati ad analizzare il fenomeno. Per alcuni si è trattato di una sorta di rivincita del “vorrei ma non posso”: visto che i marchi si arricchiscono sfruttando prodotti costosi che tutti desiderano – e dunque acquistano, magari facendo sacrifici – per una volta “la gente” ha fatto lo stesso per delle scarpe da venti euro, tié!
Altri – secondo me più ragionevolmente – sostengono si sia trattato di un’abile e ben architettata campagna di marketing, fatta non tanto per vendere le scarpe, i calzini o le magliette (anche) ma per affermare il marchio, farlo diventare “trendy”, nonostante si tratti di una catena di supermercati (tra le maggiori in Europa) che punta molto sui prezzi contenuti.
Qualunque sia la vera motivazione, c’è molto da imparare e materia su cui riflettere. In fondo, se sembrava già assurdo che si facessero file chilometriche fuori i negozi di Apple in attesa dell’uscita del nuovo “device”, pensare che accada lo stesso per un prodotto economico – che poi diventa costoso nel momento in cui le persone che ne hanno fatto incetta lo rivendono su ebay a dieci volte il prezzo di acquisto – lascia perplessi.
Che società stiamo diventando?
In verità è da tempo che su tali questioni ci si interroga. Quando Erich Fromm pubblicò “Avere o Essere?” (era il 1976), molti (me compreso) rimasero fulminati sulla via di Damasco. E’ da allora, credo, che sono diventato sospettoso del consumismo, e dell’essere considerato non una persona, o almeno un cliente, quanto un “consumatore”.
E d’altra parte anche nel nostro campo (quello fotografico) c’erano già altri che sostenevano gli stessi argomenti: ora che mi sto leggendo un libro che raccoglie gli scritti di Ando Gilardi (forse il più sagace e intelligente tra coloro che hanno scritto di fotografia), pubblicati tra il 1965 e il 1970, non posso che sorridere notando come le mie osservazioni siano state di gran lunga anticipate dal caustico saggista e fotografo.
Insomma, fenomeni come quelli delle scarpe Lidl avvengono continuamente in campo fotografico, sebbene con numeri enormemente inferiori.
Tuttavia, come non osservare che la logica che spinge le persone ad acquistare il nuovo modello di fotocamera quando quello che già possiedono funziona benissimo, di fatto si muove su quella stessa linea?
Infatti, facci caso, le campagne pubblicitarie concentrano spesso l’attenzione su caratteristiche delle fotocamere che tendono a sollecitare la pancia del potenziale acquirente, più che la testa. Ma questo discorso l’ho fatto già molte volte, e so che rischio di ripetermi, oltre che di rimanere del tutto inascoltato.
Qui, in verità, mi premeva di più concentrarmi sul fatto meramente tecnico. Mettiamola così: se le scarpe della Lidl fossero di eccellente qualità, consentissero di camminare a lungo senza che si abbiano problemi ai piedi, insomma se esprimessero una qualità elevata a un prezzo conveniente, chi avrebbe qualcosa da ridire?
Ma non è su questo aspetto che si fonda il fenomeno. Si fonda sull’accostamento dei colori, la forma, ma soprattutto sulla simbologia della scarpa: poteva anche essere viola a pallini marroni, ma se è desiderabile, allora sarebbe comunque stata acquistata per il suo valore totemico.
Io le calzo e sono “in”, alla moda, e anche alternativo, visto che non sono delle fiammanti “Nike” ma delle modeste scarpe da (relativamente) due soldi. Insomma, sono figo. Questa è l’idea di fondo del marketing, e funziona.
Lo stesso ha fatto, per esempio, la Lomography, predisponendo fotocamere un tempo ritenute quasi dei giocattoli, oggetti senza un vero valore tecnico, rendendole invece oggetti di desiderio, non per scattare foto “belle”, ma per scattare e basta, perché il gesto esaurisce l’orizzonte esistenziale dell’oggetto.
Poi, certo, qualcuno ci realizza anche delle buone foto, o utilizza alcune delle fotocamere in modo “serio” (anche io ne ho alcune e le uso nei miei progetti), ma non è questo il mercato di riferimento, il mercato è quello degli “hypster” desiderosi di farsi notare: tu scatti con la nuova digitale dalle prestazioni super? Banale!
Guarda me che scatto con un pezzo di plastica e –pensa – ottengo addirittura delle fotografie guardabili! La cosa interessante è che a volte fotocamere che – a rigor di logica – dovrebbero costare poche decine di euro, alla fine costano quasi come una digitale entry level.
Ma non voglio gettare la croce addosso a Lomography che quello che fa lo fa bene, e cura sapientemente il suo orticello sfruttando una tendenza che è generale, ovviamente non solo in campo fotografico.
In fondo anche la fotografia istantanea ha seguito lo stesso sentiero, e bisogna dire che ha funzionato. Le vecchie Polaroid nascevano, in primis, come fotocamere economiche per realizzare foto ricordo destinate all’album di famiglia (ma soprattutto destinate a scolorirsi). Certo, le pellicole costavano care già allora, ma si usavano saltuariamente.
Poi la Polaroid realizzava anche pellicole per uso professionale, ma questa è un’altra storia, e comunque era una nicchia rispetto al successo di massa che avevano quei quadratini colorati che si sviluppavano davanti ai nostri occhi stupiti. Il digitale, ovviamente, ha finito per uccidere questa magia, tra le proteste di chi – compreso il sottoscritto – utilizzava quei prodotti per scopi “creativi”. Ma – è noto – la creatività di un gruppetto di fotografi non paga, ma le mode si. Dunque per salvare la fotografia istantanea occorreva che il tutto diventasse “trendy” e desiderabile, insomma “figo”.
Questo spiega perché la Fuji abbia dismesso le pellicole (da me amatissime) da usare con le fotocamere “a spellicolamento” (peel apart), mantenendo invece la linea Instax, del tutto amatoriale.
Le Instax vanno alla grande, soprattutto tra i giovani, perché si ha subito tra le mani una stampina debitamente vivace, realizzata con una fotocamera a sua volta colorata, dalle forme estrose e soprattutto “a prova di idiota” (foolproof). Per chi ama le classiche Polaroid serie 600 e SX70, c’è sempre la ex “Impossible Project” (ora ha recuperato il marchio originale), e siamo tutti contenti, o quasi.
Ma, osservo, la logica di fondo è davvero cambiata. A parte le ovvie eccezioni, questo settore è sostenuto da persone che fotografano, non dai fotografi. E’ sempre la moda, l’essere di tendenza a funzionare, non certo il risultato (fotografico) finale, del quale i più nemmeno sono consapevoli. E comunque gli importa poco.
Di esempi ne potrei fare molti altri, dalle fotocamere per i “Vlogger” a quelle per i “Blogger” (mah…), da quelle “stylish” pensate per le donne (a proposito di gender gap) a quelle per i “ggiovani”. P
enso alla Olympus (e non è certo l’unica) che ha provato a sostenere le proprie vendite offrendo fotocamere che si potevano scegliere di vari colori, o con accessori dedicati molto fighi. In un mercato dominato in buona parte dagli smartphone, apparire diversi e più “seri” – ma comunque alla moda – può anche funzionare. La Pen E-PL9 è esplicitamente venduta come fotocamera “adatta alle donne” e con colori facilmente abbinabili ai vestiti. Vuoi mettere?
La Olympus occorre dirlo, è recidiva, perché già negli anni ’70 le “Pen” mezzo formato (18×24 mm) a pellicola venivano proposte come ideali per il “gentil sesso”: che poi il motivo per cui una donna non possa utilizzare una fotocamera normale mi sfugge, ma chissà quali ricerche di mercato ci stanno dietro (o magari son solo pregiudizi).
In tutto questo la fotografia – per come la intendiamo noi, almeno – c’entra poco, è vero. E francamente non me ne occuperei più di tanto (come non mi occupo delle scarpe Lidl) se non fosse che poi il mercato incide anche sulle nostre possibilità di scelta, decretando la vita o la morte di sistemi fotografici, di tecnologie, di possibilità. Inoltre incide anche sui gusti del pubblico (almeno di quello generalista) e alla fine questo conta più di quanto noi attempati fotografi snob vorremmo.
Hai voglia a dire che una foto va fatta in un certo modo – qualsiasi modo, purché consapevole, intendo – quando hai di fronte un ragazzino che ti dimostra che solo se le foto le fai strane, colorate, postprodotte massivamente avrai successo, attirerai l’attenzione, otterrai i desiderati “like”.
Gli puoi sempre rispondere che visto che fanno tutti così, la concorrenza è spietata, mentre a essere originali ci si distingue facilmente dalla massa. Al che di sicuro ti guarderebbe per poi alzare le spalle e osservare che nessuno vuole distinguersi: anzi, si vuol far parte del flusso, essere parte del fenomeno, non rimanere esclusi, che è il terrore del secolo.
Prendiamone atto: una volta magari facevi di tutto per avere uno stile personale, oggi il mondo è dei trendsetter, di coloro che determinano le mode, poi le cavalcano – finché durano – per trarne il massimo e poi, quando l’onda cala, cercare altri trend da cavalcare come esperti surfisti.
“Osserva il mercato” è un consiglio che mi son sempre sentito ripetere. Qualcuno, più elastico, suggeriva di tener conto del mercato, ma poi di essere se stessi. Già meglio.
Ma oggi è davvero difficile anche fare questo, perché grazie a Internet possono far credere che se vuoi essere davvero qualcuno devi fare a pugni fuori un Discount per comprare delle scarpe kitsch, come anche che una foto debba essere colorata come un albero di natale e altrettanto luminescente affinché sia davvero valida, e se non rispetti le regole ti resta solo una “nicchia” in cui rifugiarti e che diventa un po’ il tuo fortino. Poco utile, ma magari tranquillizzante…