
Ogni volta che si parla delle fotografie di Ansel Adams la prima cosa che viene osservata è l’enorme perizia tecnica del fotografo. Ci si lancia in lunghe disquisizioni sul ricorso al banco ottico, sui negativi di grande formato, sulle stampe gigantesche ottenute in camera oscura con un lavoro certosino e certo, anche sul Sistema Zonale.
Ora, scommetto che ben pochi di coloro che stanno lì a ragionare di questa indubbia qualità intrinseca delle foto di Adams hanno avuto modo di vedere dal vivo una di queste stampe. A me purtroppo non è mai capitato, ad esempio.
La conoscenza che quasi tutti hanno delle foto di Adams è legata ai libri (io ne ho diversi e mi piacciono molto!) o a Internet. Scommetto che “Clearing Winter Storm” in versione originale doveva essere proprio spettacolare, ma anche su Internet non è affatto male. Ad ogni modo la leggendaria qualità di cui si parla a lungo e con cognizione di causa, la valutiamo però da stampe di 1600 pixel sul lato lungo (se va bene) o stampe diciamo 20×30 cm (ma spesso più piccole, tipo 13×18 cm) pubblicate su una pagina di libro.
E allora perché queste foto hanno così grande successo? Perché funzionano!
Sono ben composte, evocative, colpiscono l’immaginazione e fanno sognare di un mondo selvaggio e solitario. E’ questo il loro merito. Non l’essere state scattate con un banco ottico!
Oggi, se fosse ancora vivo, Adams potrebbe realizzare le sue foto (e le stampe) con facilità, senza respirare fumi chimici e trascorrere lunghe sedute al buio. Se lo facesse, questo toglierebbe qualcosa alle sue foto? Ci giurerei che molti risponderebbero di si. Ma come, Ansel Adams senza banco ottico e panno nero? Impossibile!
Quando nel 1925 venne presentata, alla fiera di Lipsia, la mitica Leica con i suoi negativi 24×36 mm, la gran parte dei fotografi la ritennero inadatta a fare lavori “seri”. Troppo piccola la superficie del negativo per ottenere stampe di qualità, meglio il 6×6 o il 6×9 o addirittura formati maggiori!
All’epoca imperavano fotocamera grandi e impegnative, come la Ermanox utilizzata da Erich Salomon per immortalare i politici nei loro “incontri segreti” o la Auto-Graflex a soffietto, un vero comodino dotato di obiettivo, utilizzata ad esempio da Stieglitz per realizzare la sua famosissima “The Steerage“, il ponte di terza classe.
I fotografi che intuirono subito le potenzialità del piccolo formato faticarono non poco a superare l’ostilità di editori e agenzie, che esigevano negativi grandi, “di qualità”, con l’idea che le foto sarebbero apparse più incise, una volta pubblicate. Presumo sia (anche) per questo che Henri Cartier-Bresson se ne uscì con la famosa frase “la nitidezza è un concetto borghese“: insomma un orpello, una decorazione, qualcosa di superficiale, una sovrastruttura che nulla ha a che fare con il valore della foto stessa.
Ad ogni modo poi il 24×36 mm ha vinto la sua battaglia, complici i miglioramenti tecnologici, e anzi oggi viene considerato il formato “grande”, quando parliamo di sensori digitali. E’ vero che esistono fotocamere digitali con sensori molto più grandi, il cosiddetto “super Full Frame” utilizzato ad esempio da Fuji e Hasselblad, ma sono costose e riservate davvero a una nicchia, viceversa il “Full Frame” è considerato lo standard professionale, quello in grado di dare l’agognata qualità alle nostre fotografie. Dunque, per uno strano gioco del destino, oggi il formato Leica gioca il ruolo del fratello maggiore e sono i formati più piccoli (a cominciare dall’APS-C) a recitare il ruolo di formati “inadatti”.
E’ un vecchio vizio dei fotografi quello di inseguire la qualità tecnica, a volte dimenticando quella intrinseca, creativa, culturale o anche artistica delle foto. E questo anche se non si cerca di imitare Ansel Adams con stampe piene di dettaglio.
Diciamo subito che il formato “grande” (o molto grande) ha degli indubbi vantaggi, come un minor rumore grazie al “pixel pitch” (la distanza tra un pixel e l’altro che ne indica anche la dimensione) molto ampio e dunque con pixel più grandi, in grado di raccogliere più luce. Per questo la resa con bassa luminosità sarà assai maggiore.
La dimensione di un pixel sul sensore di uno smartphone va da circa uno a due micron, nettamente inferiore a quello di un sensore Full Frame. Per essere almeno un po’ conpetitivi i produttori di smartphone ricorrono a trucchi come il “Pixel Binning“, la combinazione via software di più pixel (in genere quattro) in uno, il che porta a imitare la resa di un pixel più grande. Il tutto è gestito da algoritmi sempre più complessi, ma il fatto vero è che funziona per le foto comuni, sebbene non per i nostri scopi.
Visto che i pixel in verità è come se fossero un quarto di quelli dichiarati, se scattate una foto con uno smartphone da 48 megapixel in jpeg, scoprirete poi che spesso la stessa foto in RAW è invece di soli 12 megapixel. Ma meglio 12 buoni che 48 pessimi.
Più i pixel sono compressi in una superficie piccola, più la foto apparirà “granulosa” e soffrirà della comparsa di rumore, sia termico (nelle lunghe esposizioni) sia cromatico. E certamente la definizione ne soffrirà. Spesso viste molto ingrandite le foto realizzate con sensori piccoli e molti pixel appaiono “flocculose”, a volte addirittura come “acquarellate”. Buon motivo per non lasciarsi abbindolare da fotocamere con tanti megapixel! Diciamo che la gamma ragionevole per fotocamere con sensore piccolo va da 12 a 16 megapixel (anche 20 con sensori da un pollice), abbondantemente sufficienti per ottenere stampe di buona qualità anche di dimensioni importanti.
E per “buona qualità” si deve intendere “qualità sufficiente” per gran parte degli utilizzi, magari non è tale per utilizzi specialistici, o ingrandimenti molto spinti sebbene ricordo che una quindicina di anni fa feci stampare, per una mostra, delle foto scattate con una compatta Fuji E900 (9 megapixel, ma col RAW) nel formato 50×70 cm. E reggevano benissimo: ce le ho ancora e le mostro sempre agli amici con un certo orgoglio!
Tutto questo non certo per dire che occorra scattare sempre con compatte o fotocamere a sensore piccolo, o con gli smartphone. E’ ovvio che le fotocamere APS-C o Full Frame hanno dei vantaggi che sono incontrovertibili. Hanno – tra le altre cose – una gamma tonale molto più estesa, dunque si possono realizzare fotografie corrette anche in presenza di un contrasto elevato, con la certezza di poter recuperare dettagli nelle ombre e nelle luci, senza ricorrere a trucchi tecnologici come l’HDR. Anche se tutto questo ha ovviamente un costo e non solo economico, a cominciare dagli ingombri, sia della fotocamera che degli obiettivi.
Quel che mi preme sottolineare è solo che anche le fotocamere con sensori da pochi millimetri quadrati hanno un loro valore e offrono dei vantaggi indiscutibili e dunque vanno considerate degli strumenti utili, da affiancare a fotocamere più “performanti”.
Infatti ci sono aspetti prettamente fotografici che dovrebbero farci prendere in considerazione i piccoli sensori nonostante i loro indubbi limiti. Parlo di quelli davvero piccoli: inferiori a 1″ (un pollice, 13,2×8,8 mm). Sensori di 6×5 mm (6,17×4,55 per la precisione se parliamo di sensori da 1/2.3″), ad esempio, come quelli presenti negli Smartphone, nelle Action Cam, in diversi droni, nelle Superzoom.
Consumano poca energia, si scaldano poco e oggi riescono a creare fotografie straordinariamente di qualità, almeno nelle condizioni “normali”. Ma la cosa più importante è quello che possono aggiungere alle nostre foto.
Infatti non è vero che la fotocamera di uno smartphone o di un drone sia inferiore a un mirrorless full frame. Davvero. E’ solo diversa. Può fare cose che la mirrorless non sa fare e viceversa. Se il parametro unico e solo è la qualità assoluta – strumentale – allora non c’è storia. Ma se consideriamo certe caratteristiche come dei pregi e non come dei difetti ecco che la faccenda cambia.
Le fotocamere con sensore piccolo hanno una notevole profondità di campo, ad esempio. Inoltre gli obiettivi utilizzati sulle fotocamera a sensore piccolo hanno una luminosità straordinaria ma un ingombro e peso irrisorio se pensiamo alla lunghezza focale: ci sono bridge superzoom (come le Panasonic) che montano obiettivi da 24-600 con un diaframma fisso di f/2.8 su tutta la gamma. Sai quanto peserebbe un obiettivo 600 mm f/2.8 per il Full Frame? Per non parlare del costo.
Ma, insisterai, vuoi mettere la qualità?
Senza dubbio. Ma considera che le foto fatte a 600 mm con questo tipo di fotocamera (ma anche le riprese subacquee con il fish-eye possibili con una Action Cam o quelle aeree con un drone) non esisterebbero altrimenti, sia perché non tutti possiedono (o possono permettersi) un teleobiettivo “vero”, sia perché comunque non se lo porterebbero in giro, magari andando in bicicletta o in escursione.
E una foto che esiste è sempre di qualità migliore di una che non esiste!
Inoltre alcune di queste fotocamere comunque fanno ottime fotografie utilizzabili anche per buoni ingrandimenti. Ad esempio il mio ultimo libro “Signs” è – con pochissime eccezioni – interamente realizzato con sensori piccoli, il più delle volte quello del mio smartphone Redmi.
Naturalmente per ottenere fotografie di qualità accettabile occorre dedicare un po’ di attenzione ad alcuni aspetti, che elenco qui sotto.
Scattare in RAW – Se si sceglie una fotocamera a sensore piccolo e si intende utilizzarla “seriamente”, meglio lasciar stare il jpeg, dato che queste fotocamere lo “lavorano” in modo eccessivo, eliminando i dettagli per mantenere il file “pulito”. Occorre invece scegliere modelli che abbiano appunto il formato grezzo, cosa non sempre facile. Molte “superzoom” (bridge camera) ne sono sprovviste (ad esempio le Sony), mentre ci sono costruttori che lo inseriscono sempre (come Panasonic). Nelle Action Cam il problema è ancora più pregnante: sono pochissime quelle dotate del RAW, nemmeno tutti i modelli di GoPro ne sono forniti, e spesso la cosa non è indicata con chiarezza, dunque occhio. Lo stesso discorso vale per i droni (a eccezione di quelli professionali su cui si possono montare anche delle “vere” fotocamere), spesso dotati di buone fotocamere integrate, ma raramente con il RAW. Per gli smartphone la faccenda è un po’ meno complessa perché spesso (ma non sempre) se anche non hanno il RAW è possibile installare delle app che “sbloccano” questa possibilità.
Utilizzare solo 100 ISO – Quasi tutte le fotocamere a sensore piccolo sono impostate su ISO auto, una vera disgrazia. Per evitare il mosso, l’algoritmo interno alza gli ISO, nella certezza che visto che si scatterà in jpeg si potrà eliminare il rumore via software. Il risultato sono foto inutilizzabili. Dunque, dopo aver impostato il RAW, occorre anche – via menu – scegliere i 100 ISO e non muoversi da lì se non per casi estremi (mai comunque sopra i 400 ISO). I pixel sono molto “compressi” su un sensore da frazioni di pollice e dunque la “grana” è subito visibile. Meglio ricorrere al treppiedi per evitare problemi di nitidezza.
Mai sottoesporre (ma nemmeno sovraesporre) – La gamma dinamica dei piccoli sensori è sempre abbastanza ridotta, e questo obbliga a delle scelte, a volte dolorose. Evita però di esporre direttamente per le luci, perché le ombre non sarebbero più recuperabili, se non a costo di un degrado molto evidente con la comparsa anche di rumore cromatico, nello stesso tempo attento al “light clipping”, alle alteluci bruciate, anche in quel caso irrecuperabili. Questo sembrerebbe un aspetto davvero inaccettabile, ma in realtà si impara presto a gestire quel poco di gamma che si ha a disposizione, o a ricorrere – in casi estremi – all’HDR presente in questo genere di fotocamere (il più delle volte).
Componi con attenzione – Diciamo con attenzione maggiore rispetto a quanto faresti con altre fotocamere, dove hai sicuramente più pixel e una maggiore resa, dunque puoi “croppare” generosamente, cosa che con i sensori piccoli è fattibile, ma senza esagerare.
Ora, ti potrebbe sembrare che davvero il ricorso a certe fotocamere (o allo smartphone) come strumento di lavoro serio sia ai limiti dell’accettabile. In effetti riconosco che tanto questi “device” sono progettati per essere utilizzati “senza pensarci troppo su” tanto per usarli bene occorre invece prestare attenzione a mille dettagli, neanche fossero dei banchi ottici!
Ma personalmente è questo quel che mi affascina: ottenere buoni risultati superando i limiti della fotocamera e sfruttandola al massimo!