Lo sguardo del fotografo

Ho appena finito di leggere il libro di Mark CousinsStoria dello Sguardo“, un “tomo” di parecchie centinaia di pagine che scorrono via come un film: in effetti l’autore è anche un noto regista cinematografico.

Il libro fornisce una tale abbondanza di stimoli, idee e informazioni che dopo un po’ si resta sconcertati. D’altra parte – sostiene Cousins – la storia dell’umanità è davvero una storia di sguardi. Catturiamo il mondo guardandolo, cerchiamo di comprenderlo attraverso lo sguardo e poco importa che la scienza ci assicuri che il senso della vista è il più ingannevole di tutti: noi gli affidiamo comunque la nostra vita.

Ripensando al passato – al nostro passato – vediamo immagini, non pensiamo a dei concetti. Ci ricordiamo di noi all’asilo, rivediamo gli altri bambini intorno a noi, possiamo riandare con la memoria al nostro primo amore delle scuole medie e ricordarne – che so – i begli occhi o il colore dei capelli, o vedere il volto del nostro professore universitario ancora apparentemente ben definito nel nostro cervello. E così via.

Purtroppo per noi tali ricordi non sono veritieri, se sono sopravvissuti alla cernita continua che ne fa il cervello di certo sono comunque stati modificati, adattati, idealizzati. Come scrive David Lowenthal nel suo saggio “Time is a foreign country“, il nostro passato è un oceano di amnesia con appena alcuni isole di memoria. Desolante magari, ma vero.

Tuttavia, la memoria visiva ci aiuta in moltissimi frangenti e come fotografi dovremmo esserne ben consapevoli. Ma tale memoria si basa su un meccanismo che potremmo definire, in modo semplice, attenzione. I nostri occhi guardano centinaia di migliaia di immagini ogni giorno, ma noi vediamo solo quelle che ci colpiscono, che attirano appunto la nostra attenzione.

Ma questo non basta.

Occorre anche che tale attenzione sia consapevole, che facciamo insomma uno sforzo per riconoscere quel che stiamo vedendo, che lo valutiamo, lo comprendiamo e magari decidiamo che è importante.

Riconosci questo processo?

E’ quello che ogni fotografo utilizza quando deve realizzare una fotografia. Guarda tutt’intorno a se, nota qualcosa di interessante, inizia a vederlo come potenziale soggetto, vi lega un senso e un significato, percepisce la scena e le implicazioni visive e sensoriali, compone l’inquadratura e scatta. Semplificando, grossomodo il meccanismo è questo.

Come puoi capire, lo sguardo in tutto questo è solo parte di un’equazione assai complessa, non è forse nemmeno la parte più importante. Noi vediamo con il cervello, non con gli occhi. Non è lo sguardo a guidarci, è la nostra cultura.

Come scrive Cousins: “gli occhi forniscono frammenti di informazioni visive alla corteccia cerebrale posta nella parte posteriore del cranio e deduciamo il resto dalla nostra esperienza visiva. Impariamo a completare il mosaico grazie a ciò che abbiamo già visto. Difatti, come descritto dal neuroscienziato David Eagleman, la quantità di informazioni proveniente dalla corteccia visiva è dieci volte maggiore rispetto a quella da essa captata. Non colmiamo semplicemente le lacune; ricostruiamo gran parte del quadro delle informazioni. Non siamo soltanto ricettori, ma anche proiettori. Vediamo mediante la conoscenza“.

Vediamo mediante la conoscenza. E’ quel che sappiamo, proviamo, deduciamo che conta davvero nel realizzare una fotografia e questo anche se poi in realtà all’interno del rettangolino del sensore (o della pellicola) non possiamo che inserire quel che abbiamo davanti. Ma quel che davvero conta sono le scelte che facciamo: cosa mettere dentro e cosa lasciare fuori (Luigi Ghirri sosteneva che nella foto quel che non c’è conta di più di quel che c’è), in che momento scattare, il punto di vista, le molte scelte tecniche (diaframma, tempo, ISO, ecc.).

Per questo ho sempre provato una certa resistenza riguardo al possibilità di insegnare tali aspetti della fotografia. Certo, li possiamo spiegare, e possiamo insegnare come gestirli, ma l’utilizzo è qualcosa di profondamente personale. Esattamente come con le parole.

Ci insegnano a leggere e a scrivere, le declinazioni dei verbi, come evitare errori di grammatica. Non per questo ognuno scriverà nello stesso modo, esprimerà le stesse idee o diventerà un noto romanziere o un poeta da premio Nobel.

Quel che conta è allargare la nostra cultura, visiva e non solo. Questa è la vera indicazione che si può dare a chi intenda diventare un fotografo consapevole. Fotografare attraverso quel che si sa perchè – ribadiamolo – vediamo mediante la conoscenza. Non si tratta certo di essere per forza intellettuali o dotti in grado di parlare lingue antiche, anzi. La cultura è qualcosa che si vive, non si apprende solo studiando o leggendo. E’ la curiosità e la voglia di interrogarsi senza restare sulla superficie delle cose.

La nuova scienza dell’epigenetica ci dice che, attraverso le generazioni, si trasmettono alcune conoscenze fondamentali, senza un passaggio “diretto” tra le persone (ma vale anche per gli animali). Non nasciamo come una “tabula rasa”, ma abbiamo già installato un “sistema operativo” cerebrale che proviene dai nostri antenati. Mi piace pensare che tale conoscenza sia anche fatta di sguardi.

In un saggio degli anni ’70, Arturo Carlo Quintavalle scriveva che, specialmente nel XIX secolo, i fotografi avevano modi di rapportarsi assai diversi a seconda delle aree del mondo in cui operavano. Un fotografo americano non “vedeva” il mondo come un europeo – e questo è facilmente verificabile – ma anche tra gli europei le differenze erano notevoli, si pensi alla scuola britannica, a quella francese o a quella tedesca.

Ma, aggiungeva Quintavalle, lo stesso accadeva anche in Italia tra le diverse regioni: i fotografi milanesi avevano uno sguardo diverso da quello dei colleghi veneti (e la diatriba tra i Circoli Fotografici delle due città durata sino agli anni ’50 del secolo scorso son lì a dimostrarlo), a Roma si fotografava in modo ancora diverso, mentre a Napoli imperava un certo “vedutismo”, e così via. In parte era un fatto di scambio di esperienze che era facile tra persone vicine geograficamente, in un’epoca in cui non esisteva Internet, ma anche di connessione con territori tra loro comunque diversi.

Ecco, io credo che qualcosa di queste differenze sia passata attraverso le generazioni e se è ovviamente vero che ognuno di noi può plasmare il proprio destino e fare le proprie scelte, credo anche che non potremo mai del tutto liberarci di questa eredità e sbaglieremmo anzi a tentare di dimenticarla.

Quel che invece penso dovremmo fare è utilizzarla come base per costruire la nostra personale, personalissima cultura visiva, a cui dovremmo dedicare cura e dedizione assi più che alle nostre fotocamere o ai nostri obiettivi.

Quelli sono oggetti, la cultura è qualcosa di vivo, specialmente quando appunto è basata sullo sguardo. Pensare che un oggetto – per quanto magari dotato di Intelligenza Artificiale – possa sostituire la cultura dell’umano che lo controlla è una pura illusione, che non può che portare a foto banali anche se gelidamente perfette.

Tags:

Reflex-Mania
Logo