Il manifesto della “Quiet Photography”

Io cerco luoghi […] come deserti o montagne o aree solitarie […] e mentre sono lì entro in uno stato mentale dove sono più aperto del solito. Aspetto, ascolto. Vado in quei posti e metto me stesso nella condizione di essere pronto grazie alla meditazione. Attraverso il rimanere quieto e in attesa, posso cominciare a vedere dentro di me e l’essenza stessa del soggetto che ho di fronte

Minor White

Forse a causa della crescita massiccia della fotografia “usa-e-getta”, che è sempre esistita ma che col digitale è diventata addirittura strabordante, si è diffusa tra i fotografi più accorti e impegnati la sensazione che ci volesse un cambio di ritmo, un modo diverso di avvicinare la realizzazione di immagini: più meditata e lenta. In una parola: slow.

 

Se ci si pensa su è strano, perché da sempre la fotografia è stata definita l’arte di cogliere l’attimo, “il momento decisivo” come lo definiva Cartier Bresson. Si può ben dire che subito dopo l’annuncio di Daguerre, tutti gli studiosi, ricercatori e praticanti si sono mossi per tentare di aumentare la sensibilità dei materiali e la luminosità degli obiettivi, allo scopo di “fermare il movimento”.

Oggi viviamo nell’era dell’istantanea, del “freezing”, nel tentativo di bloccare l’istante nel suo compiersi: d’altra parte la tecnologia oramai permette di fare davvero di tutto, anche di fermare il movimento di una goccia d’acqua o di una pallottola.

Spesso non si tratta solo di utilizzare tempi di scatto veloci; è anche un modo più superficiale di fotografare, in cui si va un po’ di fretta, anche quando non necessario. Infatti, è possibile essere “meditativi” anche scattando a 1/1000 di secondo. Non è la velocità dell’otturatore che conta, insomma, ma quella del pensiero e delle emozioni.

Ma esiste, e probabilmente è sempre esistita, una corrente di pensiero, che oggi viene definita “Slow Photo”, la quale propugna un modo meno massificato e superficiale di fotografare. In realtà moltissimi fotografi – pur non aderendo al movimento in modo diretto – hanno cominciato a dedicarsi, almeno in parte, a una fotografia più indolente, ricorrendo a tecniche tradizionalmente “slow” come il foro stenopeico o la fotografia notturna, per non parlare del ritorno alla fotografia analogica col banco ottico, o semplicemente restando più a contatto col proprio soggetto e concedendosi di operare con la massima calma, in modo quasi meditativo.

Il successo di filtri ND estremi (come il Big Stopper della Lee), che permettono di ridurre di anche 8-15 stop la luce che raggiunge il sensore, e conseguentemente di allungare i tempi di esposizione a molti secondi anche in pieno giorno, dimostra che l’interesse verso ciò che è “lento” sta crescendo.

Ma a prescindere dalla lunghezza o brevità dei tempi di scatto, si tratta principalmente di entrare nel flusso, e di restarvi tutto il tempo necessario, e senza sforzo.

Il concetto di flusso è stato messo a punto dallo psicologo, dal nome impronunciabile, Mihaly Csikszentmihaly. Si tratta della zona in cui “l’eccellenza non richiede alcuno sforzo”. E’ stato studiato molto negli atleti, visto che tutti i grandi campioni hanno compiuto le loro imprese indimenticabili quando – per loro stessa ammissione – erano in questo stato in cui non si devono fare le cose, le cose “si fanno da sé”, senza che l’atleta debba compiere, appunto, alcuno sforzo.

Quando hai fatto cose che superavano quelli che ritenevi i tuoi limiti, hai inconsciamente utilizzato il flusso. Come scrive Daniel Goleman, “l’attenzione è talmente concentrata che gli individui sono consapevoli solo della ristretta gamma di percezioni immediatamente legate a ciò che stanno facendo, e perdono ogni cognizione dello spazio e del tempo”.

La lentezza, per tornare al nostro ragionamento iniziale, non va allora concepita come qualcosa che richieda tempi di esposizione prolungati. Per lentezza s’intende in realtà “l’adeguamento ai tempi del soggetto”, evitando di piegare il mondo ai nostri voleri, e alla nostra scala temporale.

Ma l’attenzione alla lentezza credo sia solo una parte del problema. Si può operare con la massima tranquillità e non dedicare al soggetto l’attenzione che merita; si può essere lenti ma distratti, trasformando la lentezza più in un atteggiamento che in uno stato d’animo.

Per questo credo che sia necessario fare un passo ulteriore, e parlare di fotografia quieta, “Quiet Photography”, come l’ho chiamata, e che sto applicando (non senza qualche difficoltà e resistenza personale, com’è ovvio) al mio progetto “Etruria ai Sali d’argento” (trovi alcune delle foto su marcoscataglini.tumblr.com), che appunto è interamente realizzato con tecniche analogiche, alcune davvero lente come il foro stenopeico, ideali per accordarsi con soggetti il cui tempo sembra oramai immobile, come ruderi e luoghi abbandonati.

Nella QP l’accento è posto non solo sulla necessaria lentezza dell’operare, cosa che riguarda dunque principalmente l’operatore, il fotografo, ma anche e forse soprattutto sul soggetto.

La fotografia quieta opera evitando i toni forti e violenti, l’eccessiva dinamicità delle immagini (al di fuori della “dinamicità naturale”, intendo), le fotografie urlate.

Nella QP, anche il soggetto dev’essere “quieto”, perché è nel riflesso di questa calma e serenità del soggetto, che il fotografo ritrova la propria e può operare in modo da trasmettere queste sensazioni a chi guarderà le foto, realizzando degli “Equivalents”, per dirla con Stieglitz.

Va sottolineato che anche un mare o un cielo tempestosi possono essere quieti, sebbene agitati dal vento: il concetto di “quiete” non va preso alla lettera (come qualcosa che si muova lentamente o affatto), ma come concetto filosofico.

La “Quiet Photography” cerca di trasmettere allo spettatore la sensazione che la natura ha i suoi ritmi e che possiamo ritrovare la nostra serenità solo aderendovi, non imponendo al mondo che ci circonda i nostri ritmi, o i ritmi imposti dalla società della produzione e del consumo. La natura è sempre quieta, anche durante un terremoto o un’inondazione, durante ogni possibile cataclisma la natura opera secondo ritmi che le sono propri e solo cercando di entrare in empatia con questi ritmi si potrà fotografare la natura (cioè tutta la realtà) in modo “vero”, anche se personale.

In tal senso, si può dire che nella QP il fotografo opera come fa, nella meditazione, un monaco buddista, il quale mantiene la propria pace interiore, sia nella vita quotidiana che nella meditazione, non eliminando le emozioni (cosa tra l’altro impossibile) ma osservandole “dall’esterno” senza lasciarsi travolgere. Un monaco quando è arrabbiato sa di esserlo, ma fa in modo che questa rabbia “scorra” senza concederle di dominare la propria vita.

Così il fotografo “quieto” conosce  perfettamente ed è consapevole di come la natura operi, e invece di spettacolarizzare gli eventi ne racconta l’intima “necessità”, attraverso le sue immagini.

Ora, so bene che scritta in questo modo, l’intera faccenda sembri astratta e vagamente intellettuale. Ma in realtà è assai più semplice di quanto sembri. Ti basta riflettere di più sul modo in cui ti poni rispetto alla fotografia, e di quale sia il tuo modus operandi, per trovare una strada alternativa, più tranquilla, serena e riflessiva, senza che per questo tu debba fare “il monaco zen” meditando tutto il tempo nella posizione del loto (tra l’altro non so se tu lo sia, ma io di certo non sono capace di incrociare le gambe in quel modo!).

Se hai voglia di provare, e scoprire qualcosa di te nel frattempo, ti propongo alcuni semplici esercizi (ma sarebbe meglio dire “esperienze”), che possono indirizzarti sulla strada della “Quiet Photography”, e che di certo male non fanno!

Disattiva il pilota automatico

Ti sei mai reso conto di quanto noi fotografi andiamo “in automatico”, esattamente come le nostre fotocamere?

Questo per certi versi è bene: la tecnica va imparata sino a dimenticarla, e dunque se sai perfettamente come comportarti davanti a un determinato soggetto, e lo fai senza pensarci troppo su, non è un brutto segnale, anzi. Epperò, per una volta, prova a fermarti a riflettere, e analizza con attenzione le tue singole azioni.

Scomponi il tuo gesto in parti più piccole, facilmente gestibili. Magari una volta che hai tempo e la necessaria calma, e sei davanti a un soggetto che si presta (tipo un panorama), bloccati un attimo. Analizza le tue scelte. Cerca di essere consapevole sino in fondo. Hai impostato qualche automatismo? Perché non provi a escluderlo e a fare tutto a mano? Metti a fuoco con attenzione, in manuale. Fai una lettura esposimetrica accorta, meglio se utilizzando la lettura “spot” della fotocamera.

Invece di affidarti all’esposimetro a matrice, leggi i singoli punti della scena, dalle luci alle ombre, e cerca di valutare come ottenere una foto senza avere ombre troppo chiuse e alteluci bruciate. Sei in grado di farlo? Se la risposta è no, dovresti approfondire la materia.

Ti serve qualche filtro? Hai con te un filtro ND digradante per scurire il cielo? Stai lavorando con la fotocamera sul cavalletto, oppure operi a mano libera? Che sensibilità ISO hai scelto? E così via.

Ribadisco: scomponi ogni gesto nelle sue parti essenziali e prova, per una volta, ad assumere completamente il controllo, e a prendere su di te ogni responsabilità. Vedrai che all’inizio non sarà facile, ma col tempo eseguire questo esercizio ti aiuterà a migliorare come fotografo, e a entrare più facilmente nel flusso, che non è (come di primo acchito si potrebbe pensare) una forma di irresponsabilità, ma al contrario una perfetta conoscenza del gesto che si compie, talmente perfetta che appunto tutto il processo scorre via senza intoppi.

Fotografa al rallentatore

Letteralmente. Imponiti di agire con lentezza, prendendo piena coscienza del tuo soggetto, e del modo in cui stai operando.

Ognuno di noi compie delle azioni precise quando decide di fotografare. Generalmente la sequenza è questa: vedo il soggetto, lo valuto, decido di fotografarlo, prendo la fotocamera, decido quale obiettivo sia meglio utilizzare (tele? grandangolo? normale?), lo monto e inizio a inquadrare, scelgo cosa mettere e cosa eliminare dall’inquadratura, faccio la lettura esposimetrica, metto a fuoco e scatto.

Spesso alcune di queste parti sono affidate alla fotocamera, tipo la messa a fuoco e l’esposizione, ma se possibile ti invito a fare tutto in manuale, come detto per l’esercizio precedente. Ora, per una volta, agisci come in uno di quei combattimenti del film “Matrix” in cui tutto è rallentato al massimo. Guardati agire, fai come se tu avessi tutto il tempo del mondo. Controlla l’ansia.

Quando vediamo un soggetto, e pensiamo sia davvero valido, l’adrenalina entra in azione. Il respiro aumenta il suo ritmo, e così fa il cuore. Ci sentiamo predatori. Dobbiamo catturare la nostra fotografia! Devi sapere che tutti noi abbiamo nel cervello una sorta di RAM, di memoria di breve periodo, che serve a rendere possibili le azioni nel loro stesso svolgersi.

Come potresti parlare fluentemente a voce alta, se in background il tuo cervello non organizzasse il discorso salvandolo in questa memoria temporanea? Dovresti continuamente fermarti, parlando a scatti, per pensare a cosa dire.

Quando siamo sotto stress questa memoria temporanea può andare nel pallone e farci sbagliare: balbettiamo e ci confondiamo nel parlare, o addirittura inciampiamo e cadiamo mentre stiamo andando sul palco per tenere un discorso dopo aver vinto un importante concorso fotografico (te lo auguro: di vincere, non di inciampare).

Bene, quando stai fotografando e sei stressato per questo, non vedi bene quel che fotografi, non noti gli elementi di disturbo, l’orizzonte storto, il grave errore di esposizione, l’autofocus che mette a fuoco sullo sfondo e non sul soggetto, e così via. Il risultato sono le foto “inspiegabilmente sbagliate” che a volte ti ritrovi sul monitor. Perciò, rallentare e agire con voluta lentezza è un ottimo esercizio per imparare a evitare che il tuo cervello “s’impalli”.

Cambia il soggetto

No, non voglio importi soggetti che a te non interessano, ci mancherebbe. L’aspetto creativo della fotografia risiede in buona parte nello scegliere cosa fotografare: è qualcosa di assolutamente personale e, a meno che non si tratti di un incarico di lavoro, ognuno dovrebbe scegliersi il proprio soggetto in piena libertà.

Quel che ti chiedo, anche solo come esercizio, è di vedere in modo diverso il soggetto che tu hai scelto. Di farlo secondo i parametri della “Quiet Photography” che ti ho descritto (brevemente) nell’articolo. Si tratta di entrare in maggiore empatia con quanto abbiamo di fronte, e di coglierne il ritmo.

Ti faccio un esempio.

Metti che stai fotografando una persona che passa lungo la strada. Puoi fermarla, con gentilezza, e chiederle di farsi fotografare. In tal modo interrompi “il suo tempo” e, se consenziente, le imponi il tuo. Mettiti qui, gira lo sguardo così, sorridi, eccetera. Viceversa potresti cercare di comprendere quella persona, anche nei pochissimi istanti con cui condividete il vostro tempo, lasciando il soggetto inconsapevole del tuo interesse.

Puoi cogliere, dal suo modo di camminare, di porsi, di guardarsi attorno, il suo “ritmo”, ed entrare in empatia con quel tempo e dunque quella persona. Se ha attirato la tua attenzione ci sarà un motivo. Certo, può essere una bella ragazza o un bell’uomo, ma magari invece sono i suoi capelli, il suo vestiario, il suo modo di camminare.

E così scattare una foto (ad esempio in stile “Street”) in cui hai colto il tempo del soggetto, e non il tuo (magari puoi fermare dopo la persona e dirle che l’hai fotografata e mostrarle la foto sul display). Ecco, solo quest’ultima modalità è la “Quiet Photography”, perché con questo termine intendo esattamente la possibilità di rispettare il tempo del soggetto, nella considerazione che in natura come nella società umana, tutto alla fine avviene secondo un ritmo imposto – per così dire – dall’Universo.

Imporre il proprio tempo, crea una frattura, e di rado è armonica.

Non ho bisogno di dirti che anche fermando una persona e realizzando un ritratto posato puoi conseguire lo stesso risultato, se solo imparerai ad ascoltare e comprendere le persone, e concederai loro generosamente il tuo di tempo: però è di certo molto più complicato, perché il nostro soggetto si aspetta di essere guidato, non certo di essere lasciato libero di essere sé stesso. Comunque, che tu creda o meno a questa cosa, ti consiglio di provare.

Non costa nulla, e potrebbe rivelarti, attraverso i soggetti fotografati, anche molto di te.

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