
In un mondo bombardato di immagini come il nostro, l’enorme lezione di Stephen Shore sulla fotografia rischia di essere persa di vista, confusa con i miliardi di scatti che quotidianamente vengono pubblicati sui social.
Ma quarant’anni fa, il suo modo di approcciarsi all’obiettivo fu qualcosa di assolutamente innovativo che attirò l’attenzione di uno come Andy Warhol, fan accanito di Stephen Shore. Tutta la sua opera, infatti, ha rappresentato una rottura così drastica con le convenzioni del passato che… dopo di lui il concetto di paesaggio in fotografia non è più lo stesso.
Le sue esplorazioni, oggi, sono diventate più comuni, anche grazie all’enorme diffusione della fotografia digitale. Ma se si contestualizza l’opera di Shore nel tempo in cui è stata pubblicata, ci si accorge che, dopo il suo lavoro, l’idea di paesaggio… è cambiata per sempre.
E il concetto di “spettacolare” ha assunto una connotazione del tutto retorica e vuota, di fronte al realismo esasperato del suo stile. Con Stephen Shore, il vero spettacolo di un paesaggio non è infatti lo strapiombo che toglie il fiato o le infinite sfumature di un tramonto, ma la normalità di un mondo devastato dalla modernità e dal consumismo.
Stephen Shore: cenni biografici
Nato nel 1947 a New York, Stephen Shore è un talento precoce che a soli sei anni si avvicina alla fotografia, grazie a una camera Kodak che gli regalò il lungimirante zio.
Figlio unico di una famiglia ebrea che gestiva un’azienda che produceva borse, qualche anno dopo il regalo dello zio Stephen Shore iniziò a utilizzare una fotocamera da 35 mm e a leggere quello che sarebbe diventato il testo più influente della sua carriera, American Photographs di Walker Evans.
A quattordici anni, la prima tappa importante: presenta al curatore del MoMA di New York i suoi scatti giovanili, ottenendo il primo consenso degno di nota. Due anni dopo, l’incontro che gli ha cambiato la vita, quello con Andy Warhol.
È l’inizio di una fortunata amicizia che porta Stephen Shore all’assidua frequentazione della Factory, il quartier generale di Warhol, nel Village newyorkese. Nel 1971, a soli 23 anni, Shore è il primo fotografo vivente a essere esposto al Metropolitan Museum of Art della metropoli americana, con un’exhibition di scatti a colori.
Le esperienze successive a questo exploit giovanile di Stephen Shore sono soprattutto i viaggi, che il fotografo intraprende negli Stati Uniti. Nel 1972 percorre le strade che da New York lo portano ad Amarillo, nel Texas, scoprendo così la passione per la fotografia a colori. Di questo periodo è la serie pubblicata solo nel 1999, intitolata American Surfaces, in cui i protagonisti degli scatti sono “amici incontrati, pasti consumati e bagni”.
Il suo libro Uncommon Places, pubblicato nel 1982, diventa subito un classico per i nuovi fotografi (a colori) della sua e delle generazioni successive (Nan Goldin, Andreas Gursky, Martin Parr, Joel Sternfeld e Thomas Struth, tra gli altri). Stephen Shore si è anche avvicinato al mondo delle riviste di moda come Another Magazine, Elle, Daily Telegraph e molte altre.
Per il brand Bottega Veneta, ha fotografato la socialite Lydia Hearst, la regista Liz Goldwyn e il modello Will Chalker per le campagne primavera/estate 2006 del marchio italiano.
Tra gli ultimi paesi visitati da Stephen Shore per la sua fotografia figurano Israele, Cisgiordania e Ucraina. Nel 2017 è uscito il libro Factory: Andy Warhol and Stephen Shore: Selected Works, 1973-1981, monografia sul periodo in cui il fotografo newyorese lavorava a stretto contatto con il padre della Pop Art.
Stephen Shore: “lezioni di fotografia”
Opera fondamentale per capire la filosofia di Stephen Shore è il suo libro Lezioni di Fotografia (The nature of Photographs, 1998).
Nel saggio Shore esamina diversi metodi per comprendere e rapportarsi con altrettante forme di fotografia: dalle immagini convenzionali alle vecchie fotografie, dai negativi ai file digitali.
Il libro è il risultato dei numerosi anni in cui Stephen Shore ha insegnato al Bard College, nello Stato di New York. Accanto agli aspetti teorici ci sono scatti dello stesso autore e immagini storiche di diversi generi, come la fotografia di strada, d’arte e la fotografia documentaria.
Il libro è basato su tre sezioni, in cui Stephen Shore organizza il suo approccio alla fotografia: la prima è il livello fisico, materiale, di cui si compone un’immagine, la seconda prende in considerazione la raffigurazione, la terza esamina gli aspetti qualitativi (livello mentale).
Di particolare importanza è la distinzione tra composizione e soluzione, il primo un processo tipico della pittura, il secondo della fotografia. Perché spiega Stephen Shore… con un dipinto si crea qualcosa di più complesso di ciò che ha davanti i suoi occhi il pittore, mentre una fotografia fa il contrario, semplificando il mondo che sta davanti all’obiettivo.
Come già accennato, il livello mentale è un altro aspetto centrale del libro, perché per Stephen Shore rappresenta in qualche modo la consapevolezza del fotografo. Tutto ciò che un esperto dell’obiettivo ha in mente – anche inconsciamente – può guidare tutte le piccole decisioni che portano a uno scatto. E il modello mentale significa questo: non solo guardare fuori da una finestra, ma organizzare consapevolmente un’immagine affinché diventi una fotografia.
Un altro punto interessante del libro è il tema dell’originalità nell’organizzazione di una fotografia. Per Stephen Shore, non è uno sforzo che valga la pena vivere, perché l’urgenza primaria di un fotografo dovrebbe essere esplorare e risolvere. L’originalità è una conseguenza di questo atteggiamento e non dovrebbe essere mai un punto di partenza, semmai… un punto di arrivo.
Lo stile fotografico di Stephen Shore
In un mondo che considerava il bianco e nero come l’unica forma espressiva, l’avvento di Stephen Shore tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo fu considerato come una vera e propria rivoluzione (a colori).
La raccolta per cui tuttora è maggiormente conosciuto – American Surfaces – è l’opera che dà il via a questa vague, con una serie di immagini a colori stilisticamente molto vicine alle istantanee. Stephen Shore cattura tutto ciò che è stato il suo viaggio, dai motel ai parcheggi, dalle stazioni di servizio alle persone incontrate.
L’America della provincia tra New York e il Texas è presentata nei suoi colori più vividi, in un potente affresco di un paesaggio modificato dall’intervento dell’uomo sul paesaggio (un tempo) naturale. Infrastrutture, centri commerciali, cartelli stradali, cavi elettrici, viadotti. La poesia del bianco e nero è sostituita con l’impietoso realismo dei colori.
Nell’altro capolavoro di Stephen Shore – Uncommon Places, 1982 – il fotografo sostituisce la sua 35 mm a favore di una macchina di grande formato, molto meno pratica e difficilmente portabile durante un viaggio. E infatti lo stile cambia nettamente: le realtà solo apparentemente ordinarie sono ritratte in tutti i loro dettagli, come mai era capitato prima.
Con questa raccolta, il paesaggio fotografico non è più quello di un tempo. I suoi luoghi straordinari non sono più lo spettacolo della natura, ma il risultato di una società che ne ha invaso gli spazi. Nei suoi scatti ci sono tutti gli elementi che sarebbero divenuti abituali nella fotografia contemporanea, come una versione su pellicola della Pop Art a cui Stephen Shore era strettamente connesso, grazie all’amicizia con Andy Warhol.
Tutta l’opera di Stephen Shore è caratterizzata dalla forte presenza dei colori, soprattutto l’azzurro vero e proprio protagonista di tante immagini. Definito dal fotografo il “peso che bilancia la tonalità del terreno”, l’azzurro è il colore del cielo, elemento naturale che in qualche modo sopperisce ai protagonisti “industriali” delle sue immagini. Quasi una compensazione, un’intromissione nel paesaggio modificato dall’intervento dell’uomo.
Negli anni Novanta, con il progetto Essex County, Stephen Shore approda al bianco e nero. I boschi sono i principali protagonisti di questa sua nuovo approccio, ma lo stile continua ad essere quello originale e autentico delle nota esperienza a colori: l’intimità espressa dai tronchi degli alberi non è poi tanto diversa dalla “poesia” di un cartello stradale, immerso in una natura in continua trasformazione.