
La fotografia – quante volte lo abbiamo detto? – serve a creare ricordi. Album di fotografie, libri, pubblicazioni, insomma documentazione che ci permette di fissare per sempre eventi, da quelli minimi, famigliari, a quelli epocali, storici.
In una società distratta come la nostra (intendo quella occidentale) ovvio che tutti si diano forsennatamente allo scatto fotografico, in modo da non perdersi nemmeno un atomo di memoria, per non rischiare che il luogo visto, le persone conosciute, le esperienze fatte possano disperdersi nel nulla “come lacrime nella pioggia“, senza lasciare traccia. Il nichilismo è la nostra paura più grande: l’annullamento, la dimenticanza.
Ma davvero la fotografia è un’arte del ricordo? Per John Berger (foto sopra) che ne scrive nel suo saggio “Sul guardare“, “la macchina fotografica ci solleva dal peso della memoria“, è vero, ma proprio per questo tende a privarci della memoria stessa dato che possiamo ricordare solo se facciamo esperienza, mentre la fotocamera – se utilizzata in modo superficiale come fanno molti – diventa un modo per evitare il coinvolgimento. Fotografo dunque non penso.
Per Berger questo è anche frutto di precise scelte politiche. Infatti “una società capitalistica esige una cultura basata sulle immagini“, che distraggono dalle sofferenze, dalle ingiustizie, dal lavoro malpagato, e non piuttosto sulla memoria che si deve appoggiare a cognizioni più profonde e critiche.
La pubblicità degli smartphone e delle fotocamere – e la presenza dei Social – ci spinge così a creare flussi di fotografie (1000 miliardi di foto l’anno, circa, nel mondo) sempre più grandiosi, sottolineando l’importanza del “ricordo”, ma in verità il tutto serve a ottenere esattamente il risultato opposto: dimenticare, distrarre. Potremmo dire confondere.
Il motto della società Lomography – “Don’t Think, Just Shoot!” – riassume bene questa modalità: pensa a scattare, evita di pensare. Non sia mai che ti dovessi intristire: la vita è troppo breve per concentrarsi su ciò che non va, pensa a divertirti! Per questo i soggetti lomografici preferiti sono persone sorridenti, giovani che fanno gli scemi, soggetti colorati e allegri. Dal punto di vista del “sistema” una vera manna, direbbe Berger. E dispiace che il tutto nasca sulla base di una riscoperta della fotografia analogica e venga promosso come un approccio “libero e istintivo” alla ripresa.
La fotocamera non ricorda, ma dimentica perché eternalizza le forme delle cose – che è l’aspetto meno importante, in fondo – ma non ci lascia quasi nulla dei loro significati. Come strumento di memoria storiografica è addirittura pericolosa in quanto illude di essere oggettiva, quando non lo è, mai.
Dunque come fotografi siamo destinati a questa “diminutio” della nostra amata arte?
Naturalmente no: parliamo infatti – in questo caso – di un utilizzo superficiale della fotografia, ma lo stesso Berger osserva che esistono molte altre modalità con cui possiamo avvicinare la fotografia e utilizzarla come strumento di comunicazione vera. Lavorare su progetti in cui le foto sono messe “in fila” per creare un insieme articolato e complesso di sicuro consente di creare qualcosa che supera il problema, così come scegliere una via più riflessiva, creativa e autoriale, o unire foto e parole.
Questo perché un “autore” per definizione non si affida solo alle fotografie per creare le sue opere, nel senso che prima e dopo lo scatto c’è una riflessione e un approfondimento che rendono le foto semplicemente la testimonianza di un’esperienza personale profonda e coinvolgente, che è quello che crea la memoria vera. Dunque non è una foto in quanto tale a diventare oggetto “memorabile”, ma l’insieme dell’opera dell’autore stesso, la sua profondità, il suo approccio, il suo lavoro. Lo stesso modo in cui si rapporta con la società e dunque con gli altri.
Per Berger ci sono artisti che scelgono il mestiere, i cui standard debbono essere condivisi da classi diverse, oppure la professione, che nasce quando l’artigiano abbandona la propria classe per “migrare” nella classe dominante, che è quella che paga di più, in fondo.
Mentre l’artigiano è da un certo punto di vista una figura democratica, il professionista è invece una figura elitaria. E questo vale anche se entrambi scelgono la strada della creatività. I più grandi fotografi a cui puoi pensare non erano “professionisti” nel senso classico del termine, ma artigiani.
Il loro messaggio era universale. Io, ad esempio, interpreto così l’insistenza con cui Gianni Berengo Gardin continua a ripetere “io non sono un artista”, nel senso che l’artista è un professionista pagato per dire quel che il committente decide, e dunque non è il modello a cui ispirarsi, sebbene ovviamente esistano altri modi di intendere questa figura. Oggi tanta fotografia “artistica” è infatti professionale, dunque fatta per la classe dominante che ne determina il valore (anche di mercato) e ne decreta il successo. E più questi lavori fotografici appaiono incomprensibili alla massa, meglio è. E ovviamente non vale solo per la fotografia!
Siamo abituati a vedere questa distinzione come una scelta di carriera, o di tipologia fotografica. Il fotografo artigiano è tipicamente quello che riprende le cerimonie o ha clienti “comuni”, e dunque è un professionista solo in senso fiscale, mentre il “professionista” è il fotografo famoso, con clienti “corporate” che pagano centinaia di migliaia di euro per le loro prestazioni. A volte, è vero, si chiede anche a quest’ultimi di essere comprensibili, soprattutto se il committente ha interesse a sfruttare la loro opera in senso promozionale o pubblicitario, e tuttavia esiste uno stacco netto tra questo genere e l’altro. Personalmente credo che le riflessioni di Berger e di altri vadano intese come generali (e generaliste), poi ogni autore fa storia a sé, ma riconosco che esiste davvero una fotografia, spesso professionale, fatta per l’oblio – che apparentemente invita alla riflessione, ma invece confonde e nasconde – e una fotografia che si fa davvero strumento di memoria e di autentica documentazione.
Ed è quest’ultima che davvero trovo sia profondamente coinvolgente e che, alla fine, mi interessa. Autori come Koudelka che si “mettono in cammino” e usurano le scarpe per raccontare, non creano documenti delle loro imprese piuttosto ci raccontano le loro esperienze, che sono sempre interiori: la fotografia è documentazione di queste esperienze, non semplicemente della realtà “vista”.
Michael Kenna non pretende di rendere testimonianza del Giappone innevato, ma della propria anima che vibra in accordo con quello che il paesaggio innevato gli ispira. E di esempi ce ne sarebbero molti altri.
In fondo è il concetto degli “Equivalents” di Stieglitz.
Pensare di poter fotografare per ricordare, in conclusione, è una pura illusione. Ma fotografare per comunicare emozioni, o per creare documentazioni che non si fermino alla superficie ma esplorino il soggetto in profondità (penso a Mario Giacomelli, ad esempio) è non solo possibile, ma è il senso stesso della nostra attività in quanto fotografi, io credo. Almeno, questa è la riflessione che mi è venuta mentre rileggevo il testo di Berger, e ho voluto condividerla…