Superfotografia e superfotografi

In ambito architettonico si è parlato spesso di “superluoghi“, un termine che cerca di superare quello di “non-luoghi” reso celebre da Marc Augé e che ha una certa connotazione negativa.

I superluoghi sono quelle strutture (outlets, cinema multisala, centri commerciali, interporti…) che si impongono nel contesto in cui sono inseriti e diventano centri di attrazione, sebbene il più delle volte edificate in aree periferiche, se non isolate, rispetto alla città, ma prossime a svincoli autostradali o comunque nodi di passaggio infrastrutturale.

Spesso sono realizzate con materiali durevoli ma economici come il cemento vibrocompresso. Insomma sono dei capannoni (“scatole per le scarpe” li definiscono alcuni), magari nobilitati con facciate che vorrebbero richiamare la tradizione locale, e questo vale soprattutto per gli outlets, a volte sono concepiti come se fossero dei piccoli borghi (non a caso sono definiti “village” nel nome), con casette colorate che si affacciano su piazze con fontana.

Solo che dietro le facciate ci sono appunto dei capannoni industriali oltre alle strutture di servizio a uso dei camion che scaricano le merci. In fondo sono luoghi nati solo con l’obiettivo di vendere, di consumare.

Ecco, mi sembra che tanta fotografia di oggi possa essere definita appunto “Superfotografia“: come gli outlets è tanto bella e colorata davanti quanto insignificante dietro, ma soprattutto cerca di sfruttare la stessa logica attrattiva. Non si collega alla realtà o al pensiero, ma solo al senso di meraviglia, alla superficialità dell’impressione iniziale.

Sono foto che “si vendono”, a volte nel vero senso del termine, ma spesso in senso lato: vogliono attirare l’attenzione e farsi vedere per – di conseguenza – attirare l’attenzione e far vedere l’autore, che è il referente unico e solo. Nel senso che non sono immagini che cercano complicità e partecipazione da parte dello spettatore: vogliono solo che questo si fermi, ammiri e lasci un “like”.

Sia chiaro: è un fenomeno diffuso e che non riguarda solo la fotografia, come i tragici casi di cronaca ci hanno dimostrato più volte, anche recentemente. Così “youtuber” e adepti di TikTok sgomitano per acchiappare lo sguardo dei distratti “naviganti” di internet e questo porta ad alzare sempre di più l’assicella, con filmati estremi, assurdi, mirabolanti.

Ma di certo anche molta fotografia è rimasta coinvolta in questo fenomeno e non potendo contare su musiche, effetti sonori e movimento, cerca di battersela a colpi di soggetti incredibili, colori saturi, inquadrature ardite. In qualche modo sono foto che nascono da “challenge” in cui ci si sfida a osare sempre di più, a volte rischiando. Recentemente ho visto le foto di due “fotografi” che si ritraggono mentre sono appesi ai cornicioni di grattacieli e camminano su gru altissime. Un senso di vertigine ti prende per forza.

Fateci caso: quando online si parla di fotografia sembra spesso che si parli di una gara a ottenere la foto più “meravigliosa, incredibile, ma dài, noooo” possibile. E questo allo scopo di vendere le “action” di Photoshop, i tutorial o i corsi che permettano di ottenere quelle foto lì, incredibilmente difficili da ottenere.

Che poi oramai basta dire un paio di paroline a un programma di “fotografia” AI per avere di meglio senza nemmeno scattare davvero la foto. So che sembra un po’ acido, da parte mia, sostenerlo, però mi sembra che il fenomeno sia evidente.

Sono sempre esistiti “superfotografi”, nel senso di fotografi che sulla base di scelte tecniche e coloristiche hanno cercato di imporsi nello scenario – magari un tantino noioso e paludato – della fotografia “tradizionale”. Già Franco Fontana rientra in questa categoria, ancor di più vi rientra Cheyco Leidmann, con le sue donne sexy riprese con colori acidi e vivacissimi, un vero tripudio kitsch. E così Pierre Et Gilles con i loro “tableaux vivant” tanto finti quanto colorati e divertenti.

Però si tratta in questi casi di scelte stilistiche, inserite in un discorso più ampio di critica della società, con le sue ipocrisie. In un’epoca poi in cui non c’era il digitale e occorreva anche saperci fare per ottenere certi risultati.

Oggi, francamente, il tutto si è stilizzato, è diventato rigido e superficiale, una sorta di atteggiamento che, visto che ha successo, tende a perpetuarsi. Così la Superfotografia prende il posto della “comune” fotografia, almeno sui social e nei luoghi in cui la fotografia si consuma. Insomma, siamo “consumatori” anche quando ammiriamo l’arte e i frutti dell’ingegno umano in generale. Che lo si trovi eccitante o triste, di fatto la “Superfotografia” è qui per restare.

Ma volendo, si può opporre resistenza!

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