Contemplazione e Sopraffazione

Per via di tutti questi miliardi di fotografie, noi chiamiamo la nostra civiltà dell’immagine. Ma, come ha detto il filosofo Rosario Assunto, la vera civiltà delle immagini è stata quella del Medioevo in Italia, dove ogni immagine veniva contemplata, analizzata, vista con familiarità. Tra i pittori e gli altri artigiani che lavoravano nelle cattedrali come nelle chiese comuni c’era dialogo, comunione. Oggi viviamo sommersi dalle immagini. Le immagini ci sopraffanno. Hanno perduto il loro senso originario, che è quello di farci ricordare, pensare, contemplare

Diego Mormorio (“Fotografia e pensiero fotografico”)

Il problema con le immagini, oggi, non è soltanto che sono troppe, ma anche che sono spesso realizzate in modo quasi “automatico”: non nel senso degli automatismi presenti in fotocamere e smartphone, ma nel senso dell’approccio che la maggior parte delle persone ha rispetto a questo modo di fissare – ed eternalizzare – la realtà.

Se un tempo scattare una fotografia era un “processo” – per quanto breve magari – oggi è un gesto banale, buttato lì, per abitudine o per necessità.

Credo sia solo per questo che oggi, come giustamente osserva Mormorio, siamo sommersi dalle fotografie. In realtà lo eravamo in parte anche un tempo, ma con dimensioni enormemente inferiori. Le complicazioni legate alla pellicola portavano infatti – in ogni caso – alla realizzazione di un’esperienza.

Immagina (o ricorda, dipende dalla tua età) di voler documentare una tua gita, o un viaggio. Dovevi andare dal fotografo e acquistare il rullino, forse fartelo anche inserire nella fotocamera per evitare che – come la volta precedente – la pellicola non si agganciasse correttamente, col risultato di non riportare indietro nemmeno una foto. Non a caso Kodak si era inventato il rullo Instamatic, a prova di idiota.

Poi facevi il tuo viaggio e – occhio! – avevi solo 36 pose, a meno di non portarti dietro un ulteriore rullino. Trenta-sei. Non scattavi a vanvera, ci pensavi su, distillavi le occasioni, le centellinavi.

Tornato a casa c’era il rito opposto: portavi il rullo a sviluppare e dopo qualche giorno dovevi tornare a ritirare le stampe. E sperare bene, che non fossero sfocate o esposte male.

 

In tutto questo, pensa a quante esperienze facevi!

Dalle due chiacchiere che scambiavi col fotonegoziante di fiducia, il quale ti dava qualche consiglio utile a non sbagliare, agli scambi di opinione con moglie/marito, figli e amici su dove e quando scattare le foto, o su come disporsi per l’immancabile foto di gruppo. E poi c’era il momento in cui “sgranavi” il mucchietto di stampine 10×15 cm e rivivevi il viaggio, e magari le fissavi in un album a imperitura memoria, rito a sua volta spesso collettivo, di famiglia.

Ecco, i più allora non si rendevano conto di quanto tutto questo avesse un senso e in cuor loro speravano che la tecnologia semplificasse sempre di più le cose. Le compatte divennero autofocus (anche prima delle reflex), nuovi sistemi di caricamento della pellicola evitavano errori, la chimica consentiva ai film di assorbire errori di esposizione davvero importanti. Tutto questo però non dissolveva la ritualità di un certo tipo di fotografia “popolare”, che poi non era tanto dissimile da quella che seguivano anche i fotografi seri, quelli impegnati a fare “arte” mica foto-ricordo.

Ma alla fine è arrivato il digitale: è vero che i citati fotografi “seri” conservano ancora oggi un’esuvia di “processo” nel dover sviluppare il file RAW con un apposito software, ma è altrettanto vero che per la stragrande maggioranza del pubblico generalista, a cui si deve almeno il 90% delle foto prodotte nel mondo, ogni ritualità è finita, per sempre.

Vedi una situazione che ti intriga, infili la mano in tasca e ne tiri fuori lo smartphone, inquadri e scatti e due secondi dopo la foto è già sul tuo profilo Social. E di foto ne puoi scattare anche migliaia, anche centinaia di migliaia, spedendole comodamente sul “Cloud” dove potrai recuperarle in un batter d’occhio in qualsiasi momento.

Si fotografa come si guarda, senza vedere – che invece è la caratteristica del vero fotografo.

Tutto questo si riflette in modo speculare quando si passa dall’altra parte, da quella dello spettatore. La fotografia è una componente talmente abituale del nostro spazio visivo, che la si degna il più delle volte solo di uno sguardo distratto.

Tranne poi lamentarsi del fatto che anche le nostre foto “meravigliose” vengano invece quasi ignorate e che i Social come Facebook ce le spingano in basso, in quel limbo immenso in cui giacciono miliardi di foto totalmente inutili. Chi mai si metterebbe ad analizzare una foto come nel Medioevo che cita Mormorio si faceva con i dipinti e quando “ogni immagine veniva contemplata, analizzata, vista con familiarità” ?

foto con smartphone

La pittura era un linguaggio, un modo per comunicare – fondamentale in un periodo in cui l’analfabetismo era quasi totale – e per questo veniva tenuta in alta considerazione. Sembrerebbe lo stesso anche oggi, ma non è così: per comunicare, oltre a un apposito canale, occorre anche che ci sia un messaggio. E l’unico messaggio che passa oggi – il più delle volte – è solo quello utile a condividere il proprio smisurato ego. Ogni fotografia inizia e finisce con il pronome “Io“: io sto facendo questo, io guardo questo, io sono qui, io mangio questo… io, io,io.

E siccome è quello che fanno tutti, difficilmente si stabilisce una reale comunicazione, che fuoriesca dai confini asfittici del proprio giro di “amici”, veri o virtuali, gli unici che possano davvero essere interessati al fatto che sei imbottigliato nel traffico della Tangenziale e passi il tempo smanettando con lo smartphone.

Sia ben chiaro che non è lo strumento – ad esempio lo smartphone – il problema. Lo si può infatti utilizzare per bene e realizzare foto degne, e anche interi progetti di qualità. La rapidità e semplicità dell’approccio fotografico consentito da simili “device”, nelle mani giuste, consente di fare cose eccellenti (ne ho parlato in un post del 2019 e nel frattempo le cose sono anche migliorate). Ma resta il fatto che lo smartphone non è stato concepito per questo, e si vede.

Alcune possibilità aggiunte recentemente (dal formato RAW al controllo manuale) servono soprattutto a far apparire la fotocamera inserita nell’apparecchio di qualità più elevata, e non a caso si definisce questa modalità “Pro” (sic!) nella consapevolezza comunque che solo pochi la utilizzeranno, visto che ai più sono gli automatismi – e magari gli effetti da aggiungere facilmente dopo lo scatto – a interessare davvero. Diciamo che l’attenzione è rivolta più al marketing che all’effettivo utilizzo serio dello smartphone, che poi è ciò che spiega (ma secondo me non giustifica) la diffidenza con cui tanti fotografi guardano alla “phoneography“, che invece andrebbe considerata una delle molte possibilità messe a disposizione del fotografo.

Consente di fare determinate cose meglio di una “vera” fotocamera e molte altre cose peggio, ma questo vale per qualsiasi strumento, anche il più costoso e “performante”.

La più potente delle Hasselblad digitali capaci di generare file enormi e pieni di dettaglio, comunque diventa inutile quando hai bisogno di lavorare in situazioni scomode o pericolose, ho quando sei impegnato in un trekking in Nepal. E dunque non esiste una soluzione valida sempre e per sempre: per fortuna, aggiungerei!

fotografare con lo smartphone

Vorrei concludere da dove ho iniziato: la ritualità. Mi ricordo che quando ero più giovane avevo iniziato a fumare. Ora, a me fa schifo fumare, davvero. Quello che davvero mi piaceva era il rito: tirare fuori il pacchetto, estrarre la sigaretta, girarmela un po’ tra le dita, metterla in bocca, accenderla dopo aver fatto scaturire una luminosa fiammella dall’accendino, magari tenendo le mani a coppella per ripararla dal vento. Una nuvoletta di fumo e per me finiva lì: il più delle volte la sigaretta si fumava da sola tra le miei dita. Poi mi resi conto di quanto era stupido il tutto e ho lasciato perdere.

Il punto è che fare le cose in un certo modo è parte integrante del fascino di qualsiasi attività: i cinesi e i giapponesi lo sanno benissimo e si sono inventati delle vere e proprie “arti” basate solo sul rito di impacchettare i regali, preparare una tazza di the, comporre mazzi di fiori o anche scrivere una lettera. Di per sé son cose banali, ma smettono di esserlo se si cura con amore ogni passo che porta al conseguimento del risultato finale.

foto di marco scataglini

Che tu scatti su pellicola o in digitale, recuperare la consapevolezza, la calma, la cura nel fare una foto – anche solo con lo smartphone – spesso rappresenta il discrimine tra l’essere un fotografo o uno che “cattura” immagini da condividere qua e là. Fossi in te ci penserei su.

(Ovviamente tutte le foto che illustrano il post sono fatte con uno smartphone)

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