Trovare un’identità

Se mi chiedessero se mi considero un fotografo digitale o analogico – domanda posta ai fotografi di frequente, più di quanto si creda normalmente – direi senza alcun dubbio di essere diventato quel che sono (nel bene e nel male) grazie al digitale.

Sicuramente – quindi – sono un fotografo digitale, sebbene sia nato e cresciuto in epoca analogica e ancora armeggi con pellicole e bagni di sviluppo.

Ricorro spesso all’analogico, l’ho utilizzato per il mio progetto “Una Momentanea Eternità”, e debbo dire che mi appassiona moltissimo.

Ma ho le mie idee in merito al ricorso alla fotografia analogica o meglio – nel mio caso – ibrida, visto che poi non stampo quasi mai i negativi in Camera Oscura ma li inserisco in un flusso digitale. Diciamo che credo esistano due tipologie fondamentali di fotografi, anche se le generalizzazioni e categorizzazioni non mi piacciono molto. Ma è per capirci.

Ci sono i fotografi digitali duri e puri, che guardano all’analogico come a una cosa morta e sepolta, anacronistica e incomprensibile, date le potenzialità infinite che il digitale ci mette a disposizione. Perché trascorrere una giornata in Camera Oscura quando in dieci minuti ottieni lo stesso risultato (a volte migliore) grazie a un computer? E per di più non inquini e non spendi soldi in carta da stampa alla gelatina d’argento e chimici puzzolenti. Molti di loro hanno anche provato a scattare delle foto in analogico, tanto per non essere tacciati di incompetenza, ma non sono rimasti fulminati sulla via di Damasco e continuano a preferire i pixel ai grandi d’argento.

Poi ci sono i fotografi dall’altra parte della barricata (con scarse possibilità di vittoria e anzi costretti in difesa, va detto): usano solo e soltanto l’analogico, rigorosamente passando per la Camera Oscura e mostrano orgogliosi le loro stampe appena emerse dal fissaggio… grazie a fotografie fatte in digitale. D’altra parte pensano che il digitale sia utile solo per questo, a condividere i loro lavori analogici online e sui Social. Spesso, a questo scopo, ricorrono a uno smartphone, perché acquistare una fotocamera digitale gli sembra uno spreco. Con lo stesso esborso economico puoi portarti a casa una Leica M6, vuoi mettere?

Discorrono sui forum della qualità di pellicole e sviluppi, di obiettivi vintage e fotocamere di nobilissimo lignaggio, arrivando alla non sorprendente conclusione che con una Hasselblad 500, un Leica M, una Mamiya RB67 – con i rispettivi obiettivi – si abbiano risultati pari (secondo loro anche migliori) a quelli ottenibili in digitale. In effetti, una stampa in grande formato ottenuta in camera oscura da un negativo realizzato con una simile fotocamera o una stampa inkjet ottenuta da un file realizzato – che so – con una Canon EOS 5D sono spesso indistinguibili. Vorrei vedere.

A questa contrapposizione non ho mai partecipato. Anche i più grandi fotografi che ammiro e studio, e che lavorano esclusivamente in analogico, hanno sempre dichiarato di non avere nulla contro il digitale, anzi: semplicemente si trovano meglio a lavorare con l’analogico.

La foto finale è quel che conta, in fondo, non come la si è ottenuta. E basta guardare molti lavori di Salgado, in cui si uniscono foto analogiche e digitali (come nel progetto “Genesis”), per capire che la differenza, se c’è, è del tutto ininfluente.

Bene, ma questo in generale. Per quanto mi riguarda, da fotografo convintamente digitale, trovo che abbia senso il ricorso all’analogico solo se ti dà qualcosa in più o di diverso dallo scatto fatto di pixel. E ce ne sono di cose possibili e interessanti su pellicola e impossibili o inaccettabili su digitale!

Le fotografie stenopeiche, ad esempio, che vengono davvero bene solo su pellicola o carta fotografica: si possono fare anche in digitale, ovviamente, ma non c’è confronto, con poche eccezioni.

Tra l’altro solo in analogico puoi fare quelle anamorfiche o anche le solargrafie. Poi c’è la possibilità di ricorrere a vecchie fotocamere vintage di qualità relativa (le cosiddette “Toy Cameras”) secondo la filosofia del “Lo-Fi” (Low Fidelity, bassa fedeltà), e ottenere così foto che possono essere solo imitate in digitale, con risultati comunque inferiori.

E di esempi ce ne potrebbero essere molti altri. Ma il punto è che a me interessa l’analogico – e lo uso frequentemente – solo se “si vede” che la foto è analogica, vuoi per la resa particolare, vuoi per i maltrattamenti che la pellicola può subire.

Mi diverte molto (e dunque lo faccio spesso) mettere appositamente assieme tutti gli errori di sviluppo che gli amanti dell’analogico puro aborrono: utilizzo bagni per lo sviluppo della carta per le pellicole, allo scopo di ottenere un maggior contrasto e soprattutto più grana, non seguo gli schemi per l’agitazione, spesso nemmeno quelli della temperatura. D’altra parte rispettando tutte le regole si ottengono negativi buoni che poi, una volta digitalizzati e “sviluppati” digitalmente insieme a quelli scattati con la fotocamera digitale, faccio fatica a distinguere! Davvero, le foto risultano quasi identiche, solo ingrandendo il file al 100% si vedeva la tipica grana analogica. Tutta quella fatica per dover trovare la differenza con la lente d’ingrandimento? Non fa per me.

Come dico sempre, abbiamo una tecnologia economica e comodissima per fare foto perfette: è per l’imperfezione che il digitale davvero non va bene. E a me l’imperfezione piace maledettamente, se è quella “giusta”, cosa oltretutto non facile da conseguire. Col digitale puoi fare qualsiasi cosa, ma devi farla tu, e questo significa che difficilmente il caso ci mette lo zampino. Ma carica una pellicola in una fotocamera improbabile, che nemmeno si capisce bene che tempi di scatto utilizzi e che diaframmi possieda, poi sviluppa il tutto in una brodaglia inguardabile e vedi che viene fuori. Sorprendentemente solo di rado debbo buttare tutto. A volte le macchie, la grana “a palla”, i contrasti strani, i light leaks concorrono a dare alla foto quel qualcosa che nessuna fotocamera digitale saprebbe dargli.

Diciamo che si insegue l’incidente fortunato (l’happy accident degli anglosassoni), che spesso regala sorprese davvero niente male. Ad esempio qualche giorno fa ho fatto un giro in bicicletta portando con me la mia “scatoletta stenopeica”, una fotocamera col foro che ho realizzato con del legno ricavato da una cassetta della frutta. Ecologica al 100%!

L’ho caricata con un foglio di carta fotografica bianco e nero che faceva parte di un pacco di carta della 3M (Ferrania) donatomi dal mio amico Roberto: roba di svariati decenni fa. Una volta tornato a casa con delle foto realizzate ai resti di un castello, ho sviluppato i fogli con quel senso di trepidazione che è la cosa bella dell’analogico, specie se declinato in senso stenopeico. Puoi ben capire quale sia stata la mia sorpresa nel vedere che i “negativi” di carta avevano delle strane colorazioni, che non avevo mai rilevato in precedenza, pur utilizzando la stessa carta. La cosa mi sembrava molto promettente. Perciò ho riprodotto le foto e le ho “sviluppate” digitalmente. Ecco il risultato.

Come puoi notare la foto è… a colori! Magari un po’ a macchie, però il cielo è azzurro e le mura sono del loro colore. Sembra una foto acquarellata, non trovi? E invece è solo un effetto di qualche fenomeno di ossidazione dell’argento (presumo) contenuto nell’emulsione. Ecco son queste cose che a volte ti regalano piccoli sprazzi di una sottile gioia che solo un fotografo può davvero capire. La foto non è certo “utile”, non vincerà concorsi o altro, però è come un regalo del caso, un dono possiamo definirlo.

Ecco, col digitale simili sorprese uno non ce le ha (quasi) mai, perché il risultato lo vedi subito nel display e solo smanettando più o meno casualmente con un software potresti magari imbatterti in una “sorpresa”. Con l’analogico, specie come lo uso io, le sorprese sono continue! A volte, lo ammetto, affatto positive, ma spesso invece lo sono, eccome.

La sperimentazione, sembrerà strano dirlo, è possibile più con la pellicola che con il digitale, che pure permette di fare “tutto”. Ma sono i limiti e le costrizioni a dare via libera alla fantasia e alla creatività…

Tags:

Reflex-Mania
Logo