
Viaggiare è un’attività comune, oggi. Più o meno tutti, prima o poi, riescono a fare una vacanza, un viaggio o almeno un’escursione, da cui tornare con la scheda della fotocamera piena di immagini “epiche”.
Spostarsi, anche di migliaia di chilometri, entrare a Samarcanda o a Timbuctù, visitare il bazaar di Zanzibar o anche camminare sui ghiacci dell’Artide non è roba per esploratori svitati e disposti a rischiare la pelle.
Eppure, mai come di questi tempi il viaggio, il viaggio vero, è diventato raro, sostituito da concetti assai diversi, come “vacanza”, relax, “piacere della scoperta” e altre parafrasi che indicano solo una cosa: che nel pacchetto all inclusive che acquistiamo nell’agenzia di viaggio è previsto tutto, tranne quello che dovrebbe davvero esserci, cioè un’esperienza che cambi la vita.
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Marco Scataglini, La Gomera, Canarie
Il vero viaggiatore, anticamente, era colui che non tornava mai da un viaggio – breve o lungo che fosse – senza essere completamente una persona nuova.
L’esempio che si cercava di imitare era la Navigatio Sancti Brandani, il viaggio compiuto da San Brandano per visitare nuove terre da evangelizzare.
Secondo la tradizione, il santo approdò su di un’isola dove vennero verso di lui numerosi monaci, che gli indicarono un sentiero da percorrere. Brandano vaga per 15 giorni sull’isola, detta Terra Promessa dei Santi, donata da Dio ai monaci e ai loro successori sino alla fine dei tempi. I prati sono pieni di fiori, gli alberi carichi di frutti, i cieli luminosi.
Ad un certo punto, Brandano viene fermato da un uomo risplendente di luce, che gli dice: “il Signore ti ha donato questa terra che darà ai suoi santi. Oltre, però, non ti è concesso andare, torna dunque da dove sei venuto”.
Si tratta, ovviamente, di una leggenda con finalità pedagogiche: l’isola è il Paradiso Terrestre promesso a chi “si comporterà bene”, un luogo di tale bellezza e magia che inevitabilmente se ne proverà per sempre nostalgia, come in effetti – a quanto pare – avvenne al santo irlandese che non smise mai, per tutta la durata della sua esistenza terrena, di desiderare il ritorno in quel luogo splendido.
Ma la Navigatio può essere letta anche come la metafora del viaggio perfetto, quello in cui si incontrerà un luogo da ricordare per sempre, un luogo in grado di cambiare il nostro approccio alla vita e di regalarci sempre nuove emozioni ogni volta che il desiderio di tornarvi ci prenderà alla gola.
Quanti viaggi del genere fanno davvero le persone? Quanti tornano cambiati dalle proprie “vacanze”? Forse più rilassati e abbronzati, ma pur sempre pronti a tornare alla solita vita.
Invece la navigazione mitologica di Brandano non solo ha cambiato la vita del santo, ma di innumerevoli persone nel corso del Medioevo: si conoscono almeno 120 manoscritti diversi che la narrano e pare che lo stesso Cristoforo Colombo vi abbia tratto ispirazione per il suo viaggio verso le “Indie”.
Per un fotografo il viaggio è una condizione perenne: non si fotografa senza viaggiare, e non intendo con questo solo lo spostamento fisico, magari di migliaia di chilometri. Parlo della necessità di sentirsi altrove, di estraniarsi (letteralmente “sentirsi straniero”) anche se si rimane dentro casa e si fotografano le bottiglie di vino sul tavolo della cucina.
Per un fotografo il viaggio è l’anima stessa della sua attività.

Marco Scataglini
Ogni fotografia è, di fatto, il resoconto di un viaggio, fatto con la mente, con i piedi, in bicicletta o con l’aereo poco importa.
Quando si imbraccia la fotocamera è come se avvenisse una magia: non siamo più semplicemente qui e ora, siamo contemporaneamente anche altrove, in territori inesplorati che quell’attrezzo di metallo, plastica e circuiti elettronici ci rivelerà e ci permetterà, se ne saremo capaci, di raccontare (e mostrare) ad altri.
Non è un caso, io credo, che molti grandi fotografi – dopo aver viaggiato a lungo – si siano poi dedicati a progetti vicino casa, addirittura dentro casa (come Luigi Ghirri, per dirne uno) – riuscendo a mostrarci in questi viaggi ipotetici realtà altrettanto esotiche di quelle che citavo all’inizio.
Ed è altrettanto strano come, vedendo oggi una gran moltitudine di foto sui Social che riprendono luoghi lontani e dai nomi altisonanti, essi sembrino banali, già visti, usuali.
Ho fatto un giro sui profili Instagram di alcuni fotografi “influencer”, che hanno costruito le proprie carriere girando il mondo e mostrando ai milioni di fan che li seguono paesaggi incredibili, città fantasmagoriche, genti strane e apparentemente lontane.
Dico apparentemente perché so per esperienza che alla fine, appena dietro l’angolo, c’è l’hotel di qualche importante catena internazionale che attende il fotografo per il “lunch” a base di prelibatezze internazionali.
Non ci si allontana mai molto dal proprio mondo, che oramai ci portiamo appresso e troviamo ovunque, fosse anche solo un McDonald’s o un Pizza Hut.
Dopo un po’ ho iniziato a sbadigliare. Fatico a comprendere il perché dell’entusiasmo mostrato dai fan di questi “fotografi”: quanti super-grattacieli di Doha, quante viste del deserto del Sahara con bivacco notturno, quanti scatti di belle ragazze sedute sulla terrazza di un resort di Manhattan dovremo ancora vedere, pensando che questo sia davvero il nostro “meraviglioso mondo”?
Il meraviglioso mondo è appena fuori l’uscio di casa, se sappiamo vederlo. Può certamente essere a Doha come nel Sahara, ma è anche per le strade di Roma o Milano o Palermo, di qualche sperduta cittadina industriale del nordest italiano, come in qualsiasi periferia degradata del mondo. Ma se non sappiamo vederlo, rimarrà sempre celato, invisibile, sconosciuto.

Marco Scataglini
Spesso incontro appassionati che mi chiedono consiglio su dove andare per scattare “belle foto”.
Berengo Gardin, in un’intervista, racconta come un giorno – era ancora giovane – avesse incontrato un altro grande della fotografia italiana, Ugo Mulas. Nel guardare le foto di Mulas, un ammirato Gardin continuava a ripetere: “bella, bellissima, ah, questa è davvero bella!”. Al che Mulas, torvo in viso, gli disse: “se dici ancora una volta che le mie foto sono belle, ti caccio via!”. Le foto non debbono essere belle, gli spiegò: “le foto debbono essere buone!”.
Una buona foto non la fai per caso, una foto significativa non la realizzi applicando qualche regoletta o la tecnica imparata nel tutorial online: al massimo, in questo modo, realizzerai delle comuni “belle foto”.
Siamo invasi, pieni di belle foto: non se ne può più. Mancano drammaticamente le foto davvero “buone”, che valga la pena ricordare.
E tutto questo avviene perché la prima domanda che si pone un fotografo è spesso: in quale luogo della Terra dovrò andare per scattare le mie foto, per fare un “bel” reportage?
E in genere vengo preso un po’ per matto quando sottolineo che il luogo migliore al mondo dove andare per trovare ispirazione è dentro noi stessi: non ci sono altri fotografi lì, non c’è alcuna concorrenza. Ma c’è tantissimo da raccontare, da mostrare, se solo lasciamo spazio alla nostra creatività.
Non sono contro i viaggi (sebbene da ex-fotoreporter di settore, detesto – credo a ragion veduta – il turismo bieco e superficiale), e come dico sempre non ho mai viaggiato così tanto come negli ultimi otto anni, durante i quali sono uscito pochissime volte dalla Tuscia, il territorio in cui vivo ora. Prima andavo di qua e di là, in Italia e nel mondo, e ho visto pochissimo – solo ora me ne rendo conto. Eppure ho fotografato intensamente (ma forse senza profondità).
La vita porta le persone a spostarsi.
C’è chi lo fa per gravi motivi (guerre, carestie, povertà), chi per cercare una vita migliore, chi per amore, chi per puro desiderio di cambiare paesaggio. E certamente si fanno spostamenti brevi per vacanza, per studio, per divertimento.
Il solo consiglio che so darti è di non partire mai semplicemente per fotografare.
Parti per scoprire te stesso, poi racconta la tua esperienza con la fotografia. Sembrerebbe la stessa cosa: credimi, non lo è!