
Camminare, guardare, esplorare, annusare… viene tutto prima. Solo dopo viene la fotografia.
Alex Coghe
Alex Coghe, fotogiornalista, street photographer, scrittore; vive a Città del Messico. E’ stato pubblicato o ha collaborato, fra gli altri, con Life Force Magazine, La Stampa, Il Giornale, Cuartoscuro, Foto Zoom, Prisma News, Leica, EL Financiero, Excelsior, Huffington Post, FIOF, Inspired Eye, Best Selected, Focus on the Story, DOC!, Samsung, Fujifilm.
Dopo l’ UOMO NELLA FOLLA, l’articolo con cui ho introdotto questa mia rubrica, eccomi di nuovo qua, cari amici di REFLEXMANIA, a condividere con voi la mia esperienza di street photographer.
Un’esperienza che, negli ultimi 10 anni, ha cambiato completamente la mia vita.
Sí, perchè anche se a qualcuno potrà sembrare esagerato, un fotografo di strada vive la fotografia probabilmente come nessun altro.
Quando esce di casa, foss’anche per andare al cinema o a cena, lo riconosci perché è sempre con la macchina appesa al collo, pronto a cogliere ogni momento che attira il suo sguardo.
E così la street photography, per chi la fa, diventa prima di tutto uno stato mentale e un’attitudine, un modo di stare al mondo, di guardare ad esso.
Lo scatto nasce quindi prima di tutto nella testa e negli occhi, mentre il resto, ovvero la realizzazione materiale dello stesso, è quasi come una reazione ad uno stimolo, il risultato automatico del processo di elaborazione dell’informazione visiva.
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La mia intenzione, come street photographer, è costantemente quella di raccontare quello che avviene davanti ai miei occhi e di farlo in un modo che appaia sempre come una fotografia.
Per essere in grado di fare questo, la prima cosa su cui ogni fotografo di strada deve poter contare è una genuina e sincera curiosità nei confronti dell’ambiente che lo circonda e degli esseri umani che ne fanno parte.
Ogni nuovo giorno mi trova pronto per la mia “giornata sulla strada”: osservo, mi immergo nella scena, entro nel ritmo che hanno quel giorno e quel luogo, divento parte integrante dell’ambiente, di chi lo vive e lo anima.
Con me ho sempre la mia attrezzatura. Uso per lo più delle mirrorless Fuji APS-C.
Come obiettivo, mi porto normalmente un 28mm; a volte invece la scelta si sposta sul 35mm .
Quando sono fuori per tutta la giornata porto con me due o tre fotocamere, con alcune batterie di riserva. Scarpe comode, in genere sneakers come vans e all stars, e una piccola borsa Messenger. Mi permettono di lavorare bene e soprattutto di mimetizzarmi, di non apparire come un fotografo.
Questa è una esigenza assolutamente fondamentale soprattutto quando lavoro nei “Barrios”, quartieri popolari di Città del Messico.
Fondamentale sia per motivi ovvi di sicurezza (i Barrios possono essere luoghi molto difficili), sia per seguire la mia visione della fotografia:
“Alcuni fotografi escono e vogliono fare belle fotografie. Penso che questo sia come mettere il carro davanti al cavallo. I buoni fotografi sono il sottoprodotto di qualche altra esplorazione, o qualche altra intenzione. “- Stephen Shore
Che cosa significa? Che per fare buone foto, foto che significano qualcosa, non devi prefiggerti la fotografia come scopo del tuo agire, ma come conseguenza del tuo modo di essere.
Chi dunque esce sulla strada mosso dall’ansia di fare belle foto raramente porta a casa qualcosa di buono.
Chi invece esce sulla strada semplicemente per farne parte, e si porta dietro una fotocamera per scattare, ti garantisco che a fine giornata ha delle immagini che raccontano qualcosa.
Personalmente, come fotografo, l’Uomo e l’ambiente in cui vive sono quello che mi interessano davvero.
Questo interesse si alimenta da solo, in maniera naturale, praticamente da sempre. Una costante che mi accompagna sia come fotografo che come uomo: l’interesse per le altre persone, le loro storie, i loro gesti, le loro espressioni…
Camminare, guardare, esplorare, annusare… viene tutto prima. Solo dopo viene la fotografia.
Questa è una conditio per me ineludibile e che descrive perfettamente il senso diverso di che cosa significhi fare fotografia per un fotografo di strada.
Mentre continuo a camminare, seguo il racconto sempre nuovo che la strada e i vari luoghi in cui mi trovo mi propongono.
Si tratta di un flusso privo di interruzioni, come un traslucido caleidoscopio di umanità, di cartelloni pubblicitari, di volti, di asfalto, di elementi architettonici, di ombre e luci, di vetrine e riflessi, di suggestivi controluce…
Ci sono, ovviamente, tecniche e modalità per scattare in strada, ma la prima fondamentale cosa da tenere in considerazione è quella di prendersi del tempo per comprenderla.
Leggere, guardare le foto degli altri, studiare, è un’ottima preparazione per la strada: non si dice spesso che “siamo nani sulle spalle di giganti”?
Si parte dalle prime foto con esseri umani, agli albori della fotografia, si passa poi per la straight photography e la Photo League, per Andrèe Kertesz e Henri Cartier-Bresson, per Willy Ronis e Helen Levitt e molti altri.
Per arrivare alla street photography vera e propria, alla sua cristallizzazione, che è avvenuta negli anni ’60.
Robert Frank, probabilmente più di ogni altro indicò una via, riconosciuta più tardi dalla famosa triade composta da Garry Winogrand, Lee Friedlander e Joel Meyerowitz. Che è un po’ come parlare di Black Sabbath, Led Zeppelin e Deep Purple quando parliamo di Heavy Metal.
New York City è stata ed è la capitale della Street Photography e come tale moralmente ed esteticamente si conserva.
La Leica e le telemetro rimangono nell’immaginario, anche se oggi praticamente possiamo utilizzare praticamente qualunque tipo di fotocamera, perfino quella di un cellulare.
L’idea, la percezione della street photography è quella di un fotogiornalismo del quotidiano e, dunque, legata moltissimo all’esperienza che il fotografo stesso ha in strada e in qualsiasi luogo pubblico.
A tal proposito è bene precisare: si chiama street photography, fotografia di strada, ma non solo in strada è fatta.
I confini sono più estesi di quello che una definizione lascia supporre, e quindi non prendiamola alla lettera. Ci sono foto fatte in spiaggia, come quelle di Bruce Gilden a Coney Island o allo zoo o aspettando un ascensore come Garry Winogrand ci ha mostrato. Sono anche esse, almeno secondo me, street photography.
La street photography è dicotomica anche nel senso che non possiamo limitarla solo alla pura documentazione e riproduzione della realtà.
Si fotografano scene non posate e senza intervento del fotografo (anche questo però è elemento di discussione, ne parleremo in altri articoli), teoricamente dunque iper realiste, ma l’elemento narrativo è spesso una reinterpretazione della realtà, un giocare visualmente e concettualmente con la stessa.
La visione soggettiva del fotografo la influenza pesantemente, grazie alla sua capacità di trasfigurarla, cogliendo dei dettagli che la maggior parte delle persone, coloro che non sono alfabetizzati a questo genere e modo di intendere la fotografia, trascurano
L’identikit del fotografo di strada, per me, è quello di un narratore visuale supportato da una cultura adeguata, e dotato di pensiero laterale: cioè, nella definizione dello piscologo Edward De Bono, di una modalità di risoluzione dei problemi che prevede l‘osservazione della realtà da diverse angolazioni.
Contrapposta dunque alla tradizionale modalità che prevede la concentrazione su una soluzione diretta al problema.
Ed infatti, per dirla con le parole del grande Stephen Shore, “il fotografo si occupa di risolvere dei problemi nel momento in cui si trova impegnato a inquadrare e comporre prima di scattare“.
Il concetto di “diverse angolazioni” mi porta ad affermare che la street photography non può essere intrappolata dentro ferree regole, tanto formali che contenutistiche.
Chi lo fa vuole imporre dei codici universalmente riconosciuti a qualcosa che fondamentalmente si nutre della sensibilità e dell’occhio di ogni individuo che fotografa in strada.
Accettando questo “principio di autodeterminazione della street“, che potrà apparire scontato ma che invece è osteggiato da coloro che sono sempre alla ricerca di nuove religioni da imporre, possiamo comprendere come il genere sia in continua evoluzione, con confini decisamente elastici.
Non può che essere così: ogni fotografo di strada stabilisce un rapporto quasi simbiotico con il luogo in cui si trova a fotografare e questo fatto è ancora più vero nel luogo in cui è solito operare e predilige.
In questo modo possiamo spiegare come anche lo stesso luogo, fotografato da diversi fotografi, presenta sempre la loro differente personalità e la loro unica visione del mondo.
Oggi stiamo vivendo un periodo di boom del genere street.
Una cosa impensabile solo un decennio fa, quando Facebook e Instagram non erano il luogo maggiormente frequentato su internet dai fotografi, ed esistevano ancora i forum di fotografia.
Non dobbiamo farci ingannare dall’incessante flusso di fotografie street che vediamo e purtroppo non dovremmo farci condizionare anche da certi contests e festivals che oggi stanno proponendo solo dei modelli standardizzati di concepire e fare street photography.
Il loro risultato è quello di una evidente omologazione che di fatto appiattisce questa capacità di far emergere la nostra voce interiore.
Come in ogni movimento culturale che in un dato momento subisce l’interesse di un pubblico maggiore, il problema, in fondo paradossale, è rappresentato da un impoverimento delle proposte, non dal moltiplicarsi delle stesse.
Si vuole imporre un modo di intendere e concepire la fotografia di strada, quando abbiamo già visto quanto importante sia che ogni fotografo possa presentare le su storie e il suo modo di vedere.
Il lato positivo di questo maggiore interesse però è che, grazie alla democratizzazione della fotografia, avvenuta col digitale e con la diffusione delle fotocamere per tutti, anche la street photography si avvantaggia di un numero maggiore di talenti sulla scena internazionale.
Mi è capitato spesso, ultimamente, di tenere conferenze sulla street photography all’Università qui a Città del Messico, ma anche in Italia, come nella tre giorni del FIOF ad Orvieto di quest’anno.
Roba impensabile fino a qualche anno fa, quando la street era una nicchia un po’ snobbata dai puristi.
Questa possibilità completamente nuova di interazione col pubblico mi ha fatto riflettere.
Sta a chi si occupa, principalmente come comunicatore ed educatore, di fotografia, il compito di diffondere il più possibile una vera cultura della street photography, sottolineandone la importante funzione di riflessione sociale ed antropologica per comprendere l’uomo, la società e la nostra stessa evoluzione.
Si tratta, a mio avviso, di una partita da giocare con molta attenzione e cognizione di causa, per evitare che la street photography sia banalizzata e vista come un mero giochino visuale per fotografi alternativi.
Ormai non c’è la più la necessità di “diffonderla”, c’è invece quella di farlo bene!
Evitando per esempio di proporre posts nei blogs eccessivamente banali, o articoli sui grandi media generalisti che ricalcano semplici formulette per attirare attenzione dei poco esigenti.
Solo così si permetterà ad un genere nobile come quello della fotografia di strada di entrare davvero nelle gallerie d’arte, e non solo con i pochi, riconosciuti maestri che già godono di questo accesso.
L’occasione è ghiotta e sembra che sia arrivato il periodo perfetto.
E’ di pochi anni fa il documentario Eveybody Street realizzato da Cheryl Dunn, importante documento sul modo di intendere e vivere la street, ora disponibilie su Netflix.
Da poco è uscito il film documentario All Things are Photographable su Garry Winogrand.
Guardali, e meglio di molte stupidaggini che leggi in giro sapranno raccontarti le ragioni e le motivazioni dell’ amore profondo per la fotografia di strada e della sua importanza sociale.
Alex.