La perfezione dell’imperfezione (non solo in fotografia)

Viviamo in un’epoca imperfetta (come quelle che l’hanno preceduta) ma che ha fatto della perfezione una sorta di “mantra” buono per ogni occasione.

Le persone sono indotte a ricercare la perfezione nelle proprie vite, da quella economica a quella fisica, e siccome la perfezione è per definizione irraggiungibile saranno sempre insoddisfatte, materia malleabile tra le mani dei pubblicitari che le indurranno così a ricorrere a prodotti “miracolosi” per conseguire – appunto – la desiderata perfezione.

Creme snellenti, palestre che ti modellano come statue greche, automobili che ti rendono “figo”, vestiti che valorizzano il tuo corpo e così via.

Standard apparentemente elevati, in realtà deprimenti se uno ci pensa bene. E non è che il mondo della fotografia ne sia esente, al contrario. Non conta se la foto è efficace e comunica qualcosa, conta la sua perfezione tecnica. Ci sarà sempre qualcuno disposto a dirti che sì, la foto è “bella” (sic!) però:

– ai bordi perde nitidezza, quindi dovevi usare un obiettivo più “performante”;

– la post-produzione lascia a desiderare, non hai ben eliminato le dominanti, la gamma di luminosità è troppo compressa, c’è una profondità di campo limitata, e così via;

– si vede che la tua fotocamera ha pochi megapixel: guarda al 200% la risoluzione come perde? Se è una stampa ti sbatte il muso a un centimetro dalla stessa e ti dice: vedi? Non è nitida!

Insomma, hai capito che voglio dire. La perfezione formale è il viatico necessario affinchè la foto stessa sia presa in considerazione, almeno in certi settori, come quello – duole dirlo – amatoriale.

Cercare di rendere al meglio la propria foto è giusto e necessario, ma senza che questo divenga un modo per sminuire quel che davvero conta: insomma, la foto è buona oppure no?

Nel Wabi Sabi – estetica giapponese fondata sull’accettazione della transitorietà e dell’imperfezione delle cose – c’è l’elogio della imperfezione, non intesa come “difetto” ma come elemento che ci impedisce di cercare a tutti i costi un’inarrivabile perfezione.

L’imperfezione ci ricongiunge al mondo concreto, ci libera dalle illusioni, dalla ricerca di qualcosa che non ha valore in sé, distraendoci invece dal ricercare quel che conta davvero.

L’adepto del Wabi Sabi non segue le regole assegnate ad esempio all’arte fotografica, come si fa in Occidente, ma utilizza una logica fuzzy, in cui il suggerire è molto più importante dell’affermare.

Matsuo Basho – poeta del 17esimo secolo – diceva: “se vuoi imparare qualcosa del pino, allora vai al pino; se vuoi imparare qualcosa del bambù, allora vai dal bambù”. Quindi andando in un luogo e cercando di divenire uno con il luogo stesso, la poesia, la storia, il racconto verranno da soli.

E’ evidente quanto questo abbia profonde connessioni con il gesto del fotografare. Non si può “diventare uno” con alcunché – e specialmente col soggetto che vogliamo riprendere – se in mezzo c’è uno strumento artificiale (la fotocamera) a cui affidiamo tutto: occorre invece che sia il fotografo a connettersi alla realtà circostante e allora la fotografia si farà da sé.

La fretta, la voglia di arrivare subito e senza difficoltà, di raggiungere subito e senza fatica risultati perfetti e di grande valore ostacola il flusso del tempo, detto Mujo, che è l’esemplificazione più chiara dell’impermanenza delle cose.

Infatti, raggiungere la vera perfezione – nei limiti imposti a noi umani – richiede tanto tempo e una dosa infinita di umiltà, elementi che, ti viene suggerito dal marketing, oggi possono essere forniti con poco sforzo dalla tecnologia. Basta pagare.

Ma la perfezione di questo tipo è per sua natura superficiale e legata ad elementi puramente esteriori.

Viceversa la vera perfezione è basata sull’efficacia della comunicazione che avviene tra spettatore e soggetto – con la mediazione della fotografia – e si può conquistare solo grazie alla dedizione. Proprio quella che oramai viene considerata se non superflua, certamente una specie di lusso.

Tra lavoro, famiglia, sport, impegni sociali, lo scopo del fotografo è quello di ottenere il massimo nelle poche ore rimaste libere. Su questo si basano gli sviluppi tecnologici avvenuti nel breve volgere di un decennio. Nel fare in un attimo ciò che prima richiedeva giorni, se non mesi o anni.

La verità però è che solo il tempo dona alle esperienze (che poi portano alla realizzazione delle fotografie) una dimensione più autentica e profonda, rendendole fonte di contemplazione non puramente estetica.

Attraverso le esperienze e grazie al fluire del tempo, acquisiamo delle conoscenze che non sono semplicemente quelle “competenze” di cui oggi c’è un florido e redditizio mercato – e che infatti sono spesso acquistate a caro prezzo frequentando scuole prestigiose – ma qualcosa di molto più profondo, che ci riconnette allo spirito della Terra e alle generazioni passate.

Qualcosa che non ha prezzo e non si può acquistare, ma solo conquistare con pazienza e lentezza, anche in campo fotografico.

Si è detto molte volte che la famosa “curva di apprendimento” della fotografia, grazie al digitale, si è molto appiattita. Vero. Ma questo riguarda solo, per l’appunto, le competenze meramente tecniche. Quelle umane e – per così dire – spirituali continuano a essere una conquista lenta, a volte lentissima.

Ma un altro aspetto importante del Wabi Sabi è il saper rispettare le cose: e dico “cose” non a caso, perché nell’elenco sono comprese le “cose vive” (gli altri esseri umani, gli animali, le piante), ma anche gli esseri inanimati (ad esempio le rocce) e infine addirittura gli oggetti creati dalla mano dell’uomo, che proprio per questo sono tenute in gran conto e amorevolmente riparate se capita si rompano.

E invece oggi basta che una fotocamera sia solo un po’ “meno aggiornata” che subito scatta la molla dell’acquisto del nuovo modello più evoluto.

Nella tradizione giapponese, i Kami sono gli spiriti che popolano ogni cosa, ogni oggetto, anche fatto dall’uomo, ogni pietra, ogni fiore. Il rispetto per gli oggetti nasce dal riconoscere che c’è un’essenza in ognuno di essi. Forse davvero la fotocamera non è più adatta alle nostre esigenze, eppure prima di cambiarla dovremmo chiederci davvero perché la sentiamo ora inadeguata, quando prima era perfetta per noi.

Non è necessario arrivare al pauperismo di Giacomelli che per tutta la vita utilizzò esclusivamente la sua Kobell tenuta su con nastro adesivo (cosa molto Zen, in effetti), ma riflettere su quanto della nostra fotografia dipenda dalle attrezzature e quanto invece da noi, dalla nostra sensibilità e dalla nostra cultura, questo in effetti sarebbe bene farlo ogni qualvolta ci scopriamo a pensare che “magari con un’altra fotocamera…“. Nessuna fotocamera, obiettivo o accessorio ti regalerà magicamente lo sguardo libero e intenso che dovrebbe caratterizzare il fotografo/a!

In conclusione, nella fotografia come nella nostra stessa vita dovremmo diventare consapevoli che ogni cosa è uno scambio. Se diamo rispetto, riceviamo in cambio bellezza, salute, benessere. E ottime fotografie.

Nota – Tutte le imperfette foto che illustrano il post sono realizzate con fotocamere stenopeiche digitali o con pellicola istantanea (Instax).

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