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È stata breve la vita di Werner Bischof, che morì in un incidente automobilistico sulle Ande Peruviane all’età di 38 anni. Eppure nell’arco di poco meno di 15 anni di carriera, il suo lascito alla fotografia è qualcosa di enorme in termini tecnici e artistici, facendo del fotografo svizzero uno dei più grandi obiettivi dello scorso secolo.
Nato a Zurigo nel 1916, da un’abbiente famiglia dedita all’imprenditoria, Werner Bischof non segue l’esempio del padre ma coltiva fin da giovane le proprie aspirazioni, iscrivendosi alla Scuola di Arti Applicate della sua città, dove segue le lezioni di Hans Finsler, esponente di punta della “Nuova Oggettività”.
Le prime esperienze di Werner Bischof con la fotografia riguardano il mondo della pubblicità e quello della moda, con esiti eccellenti. Ma tra le redazioni più in voga del periodo e la fotografia “sociale” è quest’ultima ad assecondare maggiormente la sua vocazione, rendendolo uno dei protagonisti di questa forma d’arte, che durante la Seconda Guerra Mondiale, fu ovviamente al centro delle attenzioni mediatiche.
Nel 1939 Werner Bischof è a Parigi per prendere lezioni di pittura ma è costretto a ritornare in Svizzera con lo scoppiare della Guerra e intraprende il servizio militare che lo impegnerà per i due anni successivi. Il 1942 è un anno importante per Bischof che inizia a collaborare con la rivista mensile Du, sotto la direzione del leggendario Arnold Kübler. In questo periodo, Werner Bischof pubblica le sue prime fotografie di moda e pubblicità ed entra in contatto con il gruppo Allianz, formato da artisti vicini al concetto di Concrete Art, corrente che enfatizzava il valore delle forme geometriche in contrapposizione alla pittura astratta del periodo.

Con la fine del secondo conflitto mondiale Werner Bischof è con l’organizzazione Swiss Relief, appartenente alla Croce Rossa, per documentare con le sue fotografie l’Europa del dopoguerra: è in Olanda, Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo. In questo periodo Bischof si cimenta con i suoi primi scatti a colori. Nel 1946 pubblica il suo primo volume, 24 Photos, e viaggia tra Germania, Grecia e Italia, dove incontra a Milano Rosellina Mandel, sua futura moglie.
Gli anni che seguono sono quelli della consacrazione di Werner Bischof a livello mondiale: seguono altri reportage e la collaborazione con prestigiose riviste come Life – per cui documenta le Olimpiadi Invernali di St. Moritz – The Observer e Picture Post. Nel 1949 entra nell’agenzia Magnum Photos, primo fotografo a farne parte, dopo i fondatori.
Per carattere poco incline alle luci della ribalta e al sensazionalismo ricercato da molte riviste, Werner Bischof dedica gran parte della sua vita professionale alle immagini delle culture tradizionali, rimanendo lontano dalla frenetica attualità richiesta da molti editori. Il suo lavoro in India per la rivista Life, nel 1951, è in qualche modo la sintesi dello stile e del carattere di Werner Bischof, così come lo sono i reportage di quel periodo in Indocina, Corea, Giappone e Hong Kong.
Dal 1953 Werner Bischof si dedica principalmente al continente americano, dapprima con una lunga serie di scatti a colori degli Stati Uniti, poi con reportage a Panama e in Messico, prima di giungere in Perù dov’era stato chiamato per la realizzazione di un film. Purtroppo gli fu fatale un incidente stradale su una strada andina, il 16 maggio 1954. Qualche giorno prima, in Indocina, anche il fondatore della Magnum Robert Capa aveva perso la vita.
Werner Bischof: dal Pittorialismo alla condizione umana
C’è una grande differenza che si evidenzia dal confronto tra i primi scatti di Werner Bischof e quelli della sua maturità.
A soli vent’anni Bischof aveva aperto a Zurigo un piccolo studio fotografico di moda grazie al quale iniziò a elaborare la sua idea di fotografia, in quel periodo ancora molto distante dall’avere una propria fisionomia personale. Sono anni formativi, in cui Werner Bischof si cimenta in panorami e nature morte, soggetti diversi da quelli della maturità.
Il mondo della moda offre a Bischof i soggetti giusti per composizioni basate sull’eleganza e sui giochi di luci e ombre del bianco e nero, tutte caratteristiche che rimarranno preponderanti anche nei suoi scatti più maturi.
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In questo periodo di vero e proprio apprendistato il fotografo svizzero sperimenta in pratica, le teorie del suo maestro Finsler: rompere con il pittorialismo per mettere al centro del fotogramma la visione diretta delle cose, sempre però rimanendo attenti all’ordine e non alla casualità delle cose. Insieme a tutto questo è l’imminente Guerra che avrebbe mutato l’approccio alla fotografia di Werner Bischof, oltre allo stato delle cose in tutto il pianeta.

Viaggiare di paese in paese, e toccare con mano le ferite di un conflitto che devastò l’Europa e diverse parti del mondo, cambia radicalmente le scelte fotografiche (e non solo) di Werner Bischof che sposta la sua attenzione su soggetti emotivamente più rilevanti, rispetto alla perfezione formale di un paesaggio o di una natura morta. Il passaggio da soggetti inanimati a persone reali è cruciale per chiunque decida di prendere in mano una fotocamera e in Werner Bischof fu la chiave che trasformò il suo lavoro, facendolo elevare da ottimo fotografo a uno dei protagonisti della fotografia reportistica del suo secolo.
Artista naturale, fotografo nel DNA, Bischof passò dalla geometria alle persone senza alcun problema, riuscendo a ritrarre la rinascita europea dagli orrori del secondo conflitto mondiale, con una naturalezza disarmante. Ed è in questo passaggio che risiede la sua grandezza come artista, la sua innata vocazione umanista.
Il Secondo Dopoguerra e le esperienze in Europa
Il secondo conflitto mondiale lasciò ferite lente a rimarginarsi, nella popolazione così come negli animi sconvolti degli artisti. Anche per Werner Bischof fu così, ma la sua fotografia riuscì a essere profonda e di grande impatto senza mai lasciarsi andare a facili sentimentalismi, rimanendo sempre ancorata alla realtà. In fondo per Bischof era chiarissimo il ruolo potenzialmente “menzognero” che l’arte – e più in generale la bellezza – potesse giocare in un momento storico come quello che il mondo stava vivendo.

A partire dal 1945, i primi scatti della nuova vague di Werner Bischof hanno per protagonisti alcuni profughi italiani in Svizzera, nel Canton Ticino. Poi è la volta di esperienze in tutta Europa, dalla Germania alla Francia, dall’Italia alla Grecia.
Per evitare il rischio di una fotografia puramente estetica, Werner Bischof si dedica alla ricerca dell’armonia spontaneamente presente nel genere umano e nella natura. I suoi soggetti appaiono di una bellezza schietta e naturale. È questo, per Bischof, l’unico antidoto al male del mondo, un male che si sconfigge con l’autenticità di immagini forti ma mai retoriche, scolpite con la precisione di un rigore formale appreso nei primi anni del suo approccio alla fotografia.
Dalla Svizzera al resto del Mondo
Le immagini scattate subito dopo la Guerra fanno il giro del mondo, consacrando Werner Bischof come uno dei protagonisti della fotografia di reportage. In Italia, i suoi scatti sono pubblicati anche per la rivista Epoca, mentre nel 1948 è impegnato nel suo paese con le Olimpiadi Invernali di St Moritz.
Un anno dopo entra a far parte dell’agenzia Magnum Photos, nata da poco. Dalla Svizzera agli altri paesi d’Europa, dal Vecchio Continente al resto del mondo: il punto di vista di Werner Bischof si allarga a livello planetario, rimanendo però sempre fedele al suo stile privo di sensazionalismo.
“Solo un lavoro fatto in profondità, con impegno totale e per il quale si combatte con tutto il cuore, può avere un certo valore”.
Tra le numerosi frasi note di Werner Bischof, questa riassume alla perfezione l’eredità del fotografo elvetico: tanto lavoro e molta passione. Caratteristiche, queste, che durante il periodo di appartenenza alla Magnum Photos, si notano perfettamente in ogni scatto, come questa celebre immagine risalente al 1951, sotto la neve in Giappone.

La fotografia, che ha per titolo Courtyard of the Meiji Shrine, è uno degli scatti più iconici di Werner Bischof, ed è diventata una sorta di modello per fotografie sotto la neve, perché è la classica immagine che entra nel subconscio per rimanervi a tempo indeterminato. In uno scatto del genere c’è la perfezione formale delle proporzioni, i chiaroscuri della neve contrastata dalle sagome. Ma soprattutto c’è la natura, la condizione umana e la cultura di una nazione. In un solo scatto, l’intera poetica di Werner Bischof.
Dopo l’esperienza in Giappone Bischof è in India per la Magnum per una serie di scatti inquietanti che mostrano l’estrema povertà di un paese attraverso bambini denutriti e madri disperate: un’esperienza che segna profondamente l’animo di Bischof, che aveva abbandonato le certezze di un perfetto svizzero benestante – frustrando le aspettative del padre – per girare il mondo, documentando sofferenze e distruzione.

Il famoso scatto In the Street of Patna, è forse l’immagine più rappresentativa del suo viaggio in India, e quella che sembrerebbe una composizione casuale in realtà rivela uno studio formale basato su corpi “sparpagliati” a terra, a dare un’idea immediata di vite più che mai vicine alla morte.

Un’altra fotografia simbolo di Bischof fu scattata pochi giorni prima della sua morte, in Perù. Il bambino di Cuzco che suona il flauto è di certo l’immagine più nota di una carriera purtroppo stroncata sul nascere.
Non è forse la fotografia di viaggio perfetta? Quella che non si limita a fotografare un elemento architettonico o paesaggistico, ma va in profondità descrivendo con un solo soggetto solitario lo spirito di un popolo, il suo abbigliamento tipico, le proprie radici culturali.