
(Fra pochi giorni William Eugene Smith compirebbe 100 anni … Questo articolo è dedicato a lui).
Voglio raccontarti un’esperienza davvero strana che mi è capitata qualche giorno fa.
Stavo girando per una zona periferica di Roma perché volevo provare a fare un lavoro fotografico diverso dal mio solito. Una sfida, diciamo.
A volte ci vuole, non credi?
Fatto sta che, mentre mi aggiravo tra vecchi caseggiati dai muri pieni di scritte, con la fotocamera in mano, cercando di comporre un’inquadratura decente, mi è sembrato di sentire un rumore e – giratomi di scatto – bam! ho sbattuto violentemente la testa contro un tubo sporgente lì vicino.
Sono quasi svenuto per la botta. Dopo un po’ (penso sia normale) ho iniziato a imprecare, maledicendo la mia decisione di visitare quel postaccio da cui non avrei ricavato un bel nulla. Ma cosa mi era venuto in mente?
Avrei potuto scegliere un bel luogo e ricavarne di conseguenza belle foto, e invece me ne stavo lì, con la testa non solo dolente, ma anche vuota di idee.
E fu in quel momento che sentii una voce gutturale uscire dall’ombra di un vicolo lì vicino: “è la profondità del tuo racconto che è importante! Pensa in verticale, non in orizzontale!”.
Pian piano vidi emergere la figura di un uomo dimesso, con grandi occhiali a incorniciare occhi di inusuale profondità, una pelata incipiente circondata da pochi capelli arruffati e una folta barba bianca.
L’uomo mi si avvicinò con fare calmo e tranquillo, e sorrise. “Vedi, io ho realizzato importanti reportages quando ero giovane” aggiunse, “sono anche stato in guerra… e ne uscii traumatizzato e ferito. Per questo ho deciso che avrei sempre raccontato le mie storie dall’inizio alla fine. In ogni aspetto, dal di dentro. Che mi sarei fatto coinvolgere. Pochi fotografi lo hanno fatto, mettendo come scusa le logiche del mercato. Io ho vissuto sempre sul limitare della povertà, perché la mia vera ricchezza era nell’incommensurabile lusso di vedere le cose come sono, e di poterle mostrare agli altri!”.
Continuavo a guardarlo incuriosito, una mano sulla fronte dolente e l’altra sulla fotocamera (hai visto mai), chiedendomi chi fosse mai quell’uomo che mi sembrava di conoscere, ma a cui faticavo a dare un nome. Ma si sa, in certi luoghi di periferia c’è sempre quello un po’ fuori di testa.
L’uomo comprese i miei dubbi. “Perdonami, non mi sono presentato. Non è stato cortese da parte mia. William” disse: “mi chiamo William Eugene, con il cognome più comune d’America: Smith. Forse ti sarà capitato di vedere qualcuno dei miei lavori”.
Credo che sgranai gli occhi con tale veemenza che William non ebbe bisogno di alcuna parola di conferma: “allora saprai che la gran parte dei miei lavori più noti li ho realizzati senza andare poi troppo lontano…” “si lo so” balbettai conscio di parlare a un fantasma o a un’allucinazione (per quanto realistica) dovuta alla botta: “Pittsburgh, New York, le campagne americane…” aggiunsi, per far capire all’uomo che conoscevo – e ammiravo – il suo lavoro.
“Già” disse William Eugene: “poi ho raccontato anche un villaggio spagnolo o la dolorosa vicenda di Minamata in Giappone, ma insomma, non sono mai stato interessato all’esotico per l’esotico, ma alle storie. E le storie sono ovunque. Ne hai una bella anche qui, in questo vicolo oscuro e polveroso, devi solo trovare il modo di raccontarla!”.
Osservai che mi risultava difficile mettere a fuoco le mie emozioni, più che il fotogramma.
“Alla fine degli anni ’50, io ho realizzato tutto un lavoro fotografico senza uscire mai dal mio loft di Manhattan, a New York. Scattai centinaia di foto da quella finestra al quarto piano, cercando per una volta di mantenere le distanze e fotografando la vita che vedevo svolgere là in basso. Un punto di vista inusuale per me, ma riflettendoci bene ero perfettamente inserito nel flusso della vita del quartiere, e dunque non così distante dal mio modo di affrontare il racconto fotografico. Credo siano immagini che raccontano il mio mondo, le mie esperienze: insomma non mostrano ciò che è e basta, ma vanno oltre. Il fotografo deve sapersi adattare alle circostanze. Troverai il modo di raccontare la tua esperienza, l’importante è che tu la viva da fotografo, non da testimone ebete. In condizioni come questa, tu hai la possibilità di affrontare il dramma delle periferie da un diverso punto di vista”.
Lo guardai con scarsa convinzione, sebbene avessi perfettamente compreso ciò che voleva dire: lo presi come un incoraggiamento e nulla più.
“Stavo pensando al tema dei confini , o dei limiti, se così vogliamo chiamarli” dissi, “mi sembra un tema aadatto per questa condizione. Continuo a chiedermi cosa ci sia oltre quei muri, cosa avvenga nel mondo, quali esperienze attenderebbero le persone se non si rinchiudessero dentro le proprie case e i propri egoismi. E credo che un tempo fosse così anche per i popoli, costretti a vivere all’interno di mondi chiusi, con pochi o scarsi contatti con le altre nazioni, con la storia che si compie senza che loro ne sappiano nulla. Valicare quei confini, espandere le conoscenze, è stata davvero una conquista importante per l’umanità, o almeno per una larga parte di essa. Ma come raccontarlo con delle foto che ritraggano quei muri e nient’altro?”.
William Eugene rimase brevemente in silenzio, torturando con una mano la sua barba bianca, poi iniziò a ragionare a voce alta: “Sai, i confini a volte proteggono. Le persone avevano meno paura un tempo, perché la conoscenza genera timori. Se tu sapessi che lassù, fra le stelle, c’è un popolo di alieni che guarda alla Terra come un pianeta da conquistare, te ne staresti qui tranquillo a ragionare di muri?”.
“Credo di no. Cadrei in preda al panico, perché nemmeno posso scappare” risposi.
“Esatto. Durante la guerra, mi trovavo a Okinawa. Allora, siamo nel 1943, si trattava di un paese chiuso, in cui la maggior parte delle persone che incontravamo non aveva mai visto un americano. Nonostante scappassero dalle devastazioni della guerra, i pochi contadini che incrociavamo si fermavano a fissare i soldati di colore: altro che alieni!”.
William sorrise a quel ricordo, ma era un sorriso malinconico. Quindi riprese il suo racconto:”la gente ama i confini, i limiti, perché sa dove iniziano e dove finiscono, e orienta la propria vita per restarvi dentro. Devi rinunciare a molte cose, per farlo: la curiosità, l’apertura mentale, a volte anche alla cultura, che senza spaziare diviene ben presto ideologia. Ebbi molto tempo per riflettere su queste cose quando rimasi ferito gravemente, lì, in Giappone: ci fu un’esplosione, poi il buio e il dolore. E la mia avventura di reporter di guerra terminò. Eppure, fu proprio quell’esperienza, e il terrore di perdere la vista, a farmi crescere dentro l’energia necessaria a cambiare la mia vita, e la determinazione a seguire la mia strada. Devi espandere i tuoi confini, per così dire. Sai, all’inizio, quando ero ragazzo, mi interessava la fotografia di sport. Figurati! Ma poi la vita ti porta a cambiare. Cominciai a voler raccontare storie, e a farlo in modo approfondito. Il mio motto è sempre stato: cerca e controlla! Per ogni storia che ho illustrato, e di cui il pubblico conosce solo le foto, ho raccolto montagne di informazioni, documenti, testimonianze, ho studiato il lavoro dei colleghi, cercato e ancora cercato, poi tutto questo materiale lo analizzavo con calma, e lo lasciavo sedimentare. Non sono mai stato per un approccio al volo, del tipo che ti lanci in una qualche situazione e vedi cosa succede. Io ho sempre preparato tutto meticolosamente, fin quando nessun dettaglio rimaneva inesplorato…”.
Gli occhi di Smith brillavano mentre raccontava, le sue mani roteavano in aria, a sottolineare con enfasi quanto andava illustrando. “Ma la cosa importante che vorrei farti capire”, riprese, “è quanto sia importante l’essere un testimone, e farsi scegliere dalle storie, non sceglierle e basta. Intendo dire che ci sono racconti che senti urgentemente di dover condividere, anche se a volte sembrano poco interessanti. Nel 1948 decisi di voler raccontare la storia di un dottore di campagna, Ernest Ceriani. In realtà, il tizio non aveva una specifica storia che lo riguardasse. Era un classico dottore della campagna americana, costretto a fare tutto, dal dare le medicine per un’influenza a fare piccoli interventi chirurgici, ad assistere i moribondi, o far nascere bambini, come si usava allora. Lui lo faceva con grande umanità, come spero di aver dimostrato. Ma era la banalità della situazione ad affascinarmi. I miei caporedattori mi presero per pazzo. Mi intimarono di tornare in redazione. Fu molto utile quella esperienza, perché decisi che non volevo lasciar guidare da qualcun altro le mie scelte, che anche io, come fotografo, potevo liberamente decidere cosa raccontare, e cosa no. Rimasi tra le montagne del Colorado ventitré giorni e altrettante notti, e in quella situazione sviluppai una tecnica che in seguito utilizzai praticamente sempre. Portavo con me la fotocamera senza pellicola, e stavo tutto il tempo insieme al dottore, seguendolo passo passo e fotografandolo per finta. In questo modo lui e i suoi pazienti si abituavano alla mia presenza, finendo per non prestarmi più attenzione, e io intanto mentalmente costruivo la mia storia. Infine, caricavo la pellicola in macchina e realizzavo per davvero le foto. Gli davo consistenza fisica, per così dire, ma in verità erano già state tutte scattate nella mia testa. Ho continuato a utilizzare questo sistema per tutti i miei lavori successivi, e ha sempre funzionato. Era il mio modo di entrare nella storia, di raccontarla con il massimo della consapevolezza. E’ questa la sfida, credimi!”.
Seguì un lungo silenzio durante il quale cercai di rielaborare tutta quelle messe di dati e considerazioni che sapevo essere preziosi, ma che faticavo a tradurre in realtà. Mi venne da pensare che oggi, col digitale, il trucco della fotocamera senza pellicola, in fondo nemmeno servirebbe. Si potrebbe scattare liberamente, anche a raffica, e poi buttar via i file, oppure tenere quelli che inevitabilmente sarebbero venuti interessanti e da salvare. Anzi, poteva essere un buon metodo per liberare la mente, mi dissi.
Poi guardai la faccia fattasi seria di Smith e mi dissi che no, non sarebbe stata la stessa cosa. Non lo sarebbe stata per il soggetto e non lo sarebbe stata per il fotografo. I rapporti sarebbero cambiati, Il fotografo avrebbe iniziato comunque a fotografare.
Smith, invece, con la fotocamera senza pellicola non poteva realizzare immagini, anche se l’occasione fosse stata preziosa. Questo gli consentiva di dedicarsi interamente alle persone che aveva davanti, senza lasciarsi distrarre dallo scatto.
Lo scatto a vuoto dell’otturatore, serviva solo a ribadire il suo ruolo, a non nascondersi, a ricordare a tutti chi era e perché era lì. Era un gesto di onestà e chiarezza, di limpidezza.
William si rese conto dei miei pensieri: “amico mio, la fotografia rivela al mondo ciò che sei. Io ho sempre pensato che il peccato più grande, in generale, ma specialmente nella fotografia fosse la superficialità. Volare sulle cose senza studiarle e comprenderle, prima di mostrarle. La superficialità, ho sempre sostenuto, è la menzogna più grande: per questo non ho mai avuto particolari remore a modificare alcune delle mie foto, a fare fotomontaggi in camera oscura, come nella mia famosa foto di Albert Schweizer… non è la verità assoluta, che nessuno può fotografare, il mio scopo, ma il mostrare le cose come le ho percepite e conosciute. E se per rinforzare il concetto occorre cambiare qualcosa… beh, perché no? Approfondisci. Ragiona. Ricorda. Appena guarito dalle lesioni agli occhi, volevo esprimere la mia gioia, la mia rinascita alla vita. Un giorno, vidi i miei figli ancora bambini che passeggiavano su un vialetto tra la vegetazione, tenendosi per mano. In quell’occasione realizzai la mia prima foto dopo la guerra, e forse la mia immagine più famosa. Avrei potuto fotografare le mie ferite e il sanatorio dov’ero in cura, o cose del genere. Ma nulla, come quell’immagine, poteva rendere giustizia al mio stato d’animo e alla mia vicenda personale. Non trovi ci sia da rifletterci su almeno un po’?” concluse.
Abbassai gli occhi. Il dolore era sparito. La mente si stava di nuovo chiarificando. Ero pieno di nuova energia. E quando alzai gli occhi di nuovo, l’omino era sparito.
(Il testo è un adattamento di un brano dal mio romanzo “Un fotografo ai confini del buio”, disponibile su Amazon)