
Il termine “workshop” è oramai diventato usuale in campo fotografico, sebbene derivi piuttosto da quello economico ed educativo, anglofono ovviamente.
E’ bene notare che spesso viene anche usato a sproposito, solo per attirare l’attenzione dei potenziali partecipanti, ma possiamo dire che, sostanzialmente, un workshop è un minicorso di fotografia, usualmente della durata di un giorno, o al massimo di un fine settimana, durante il quale si trascorre del tempo con un docente (nella stragrande maggioranza dei casi un fotografo) per imparare delle tecniche particolari, o approfondire il proprio approccio alla creazione di immagini.
Nella mia carriera ne ho fatti diversi: non moltissimi a dire il vero, e generalmente molto specifici (ad esempio sulla fotografia stenopeica), ma con i ragazzi di Reflex-Mania stiamo ragionando sulla possibilità di organizzarne alcuni legati ai nostri corsi. Ma ne riparleremo.
Intanto, visto che dopo l’estate molti fotografi si iscriveranno a qualche “workshop”, ho pensato fosse utile dare qualche indicazione generale e qualche consiglio per non sbagliare.
Per prima cosa, vale la pena osservare che c’è stata una vera e propria proliferazione di workshops e viaggi fotografici, negli ultimi anni. La cosa è coincisa con la crisi del settore editoriale: molti fotografi professionisti, che si erano sempre dimostrati poco interessati alla docenza, hanno visto nei workshop un modo per riequilibrare economicamente la propria carriera.
In soldoni: visto che le riviste (tradizionale mercato della fotografia) chiudevano o non erano più in grado di assorbire i servizi che i fotografi proponevano, tenere dei corsi per amatori e appassionati è sembrato il sistema più semplice e immediato di trovare fonti di reddito alternativo.
E questo ci porta alla prima domanda importante: davvero un fotografo professionista sa essere un bravo docente?
Io credo di no, non sempre. Infatti, l’attività strettamente fotografica e quella dell’insegnamento fanno riferimento a capacità e conoscenze assai diverse. Nella mente di molti partecipanti ai workshop, l’immagine che si ha è quella tradizionale del maestro e del discepolo.
Da millenni, le capacità artigianali vengono trasmesse in questo modo: l’apprendista trascorre del tempo (per alcune arti parecchi anni) col grande artista o artigiano e in tal modo impara l’arte, diventando poi a sua volta maestro. Anche in campo fotografico diventare l’assistente di un grande fotografo era un viatico fondamentale per far carriera: ad esempio tutti gli assistenti di Ansel Adams hanno poi conosciuto il successo.
Questa immagine è stata messa in crisi dapprima dalle scuole professionali (pubbliche e private) e poi dalla fretta di diventare nel minor tempo possibile dei professionisti in grado di generare reddito.
Ma c’è anche un altro aspetto: oggi le arti sono impregnate di tecnologia, e la fotografia è in assoluto una delle più tecnologiche. Negli ultimi dieci anni, poi, l’evoluzione dei materiali ha assunto connotati parossistici e non è raro il caso di dilettanti molto più preparati, tecnicamente, di noti professionisti.
Ma, naturalmente, il compito di un docente di workshop non è solo di passare nozioni tecniche, di illustrare il trucco o la scorciatoia per raggiungere un determinato risultato.
Anzi, il suo compito è – o dovrebbe essere – quello di far crescere intellettualmente l’allievo, di smuovere il suo spirito, per così dire, visto che parliamo di un’arte e non di qualcosa di puramente tecnico.
E qui sorgono i primi veri problemi, perché anche chi fa questo mestiere da tanti anni, non è detto che abbia le capacità di insegnare quanto ha appreso sul campo, di comprendere le esigenze degli allievi e di trovare il modo per coinvolgerli in un processo creativo e di espressione nel quale il workshop (a differenza del corso vero e proprio, che può anche durare anni) rappresenta generalmente solo un input, la cui efficacia è legata il primo luogo all’empatia del docente, piuttosto che alle nozioni che è in grado di trasmettere.
Così, spesso, i workshops sono in realtà delle minilezioni nozionali, molto meno utili della lettura di un buon manuale, o al più si trasformano in una bella passeggiata fotografica alla fine della quale si avrà la scheda piena di fotografie, ma non necessariamente si è imparato qualcosa, sebbene magari si sia passato del tempo, piacevolmente, con persone che condividono la nostra stessa passione. Che non è poco, sia chiaro.
Personalmente, credo che un workshop sia ben altro, anche se a volte la differenza non si veda, a livello superficiale. Durante un workshop l’allievo dovrebbe avere la possibilità di condividere una giornata “sul campo” insieme al fotografo, per vedere come quest’ultimo lavora, il suo approccio alla scelta del soggetto, dell’inquadratura, della gestione di tutti i parametri fotografici, oppure all’utilizzo di una particolare tecnica, che sia il banco ottico, il foro stenopeico, il collodio umido o quant’altro.
Perché questo è importante dirlo (e parlo per esperienza diretta): il fotografo può offrire solo il proprio punto di vista, non certo trascenderlo.
Mentre un docente professionista (ad esempio quelli che lavorano negli Istituti scolastici abilitanti, o nelle Scuole di Fotografia) è preparato per offrire nozioni e idee le più generali possibili, il fotografo impegnato nei workshop condivide il proprio modo di fotografare: non può fare altrimenti e in realtà è proprio questo che gli si chiede.
Tradizionalmente, infatti, i workshops venivano tenuti (e lo sono ancora) da famosi e importanti fotografi internazionali: chi si iscriveva, poteva vantare di aver trascorso una o più giornate a fotografare con il grande e universalmente noto “maestro”, anche se durante questo tempo non aveva poi imparato granché. Il più delle volte, però, aveva almeno potuto toccare con mano e vivere in prima persona l’avventura fotografica di chi “ce l’aveva fatta”.
Oggi è tutto più democratico e accanto a seri, e a volte attempati professionisti, anche dilettanti più o meno evoluti tengono i propri workshops, magari organizzati nell’ambito di associazioni o circoli fotografici.
Questo, di per sé, non sarebbe un problema (se è tutto fiscalmente dichiarato, s’intende), ma lo diventa se consideriamo che per molti professionisti i workshops sono una fonte di reddito, mentre per gli amatori sono solo una passione o un divertimento (o una soddisfazione personale), motivo per cui più di qualcuno parla di “abusivismo”, sebbene non esista alcuna legge (a parte come detto quelle fiscali) a regolare questo specifico settore.
Diciamo subito che ci sono “dilettanti” molto bravi anche dal punto di vista della preparazione tecnica e delle capacità comunicative.
Questo avviene in modo particolare quando si parla di tecniche fotografiche decisamente di nicchia (Polaroid, antichi sistemi di stampa, toy cameras, ecc.), raramente praticate dai professionisti e a cui invece i dilettanti dedicano molte energie, molto tempo e molti soldi (guadagnati con un “regolare” lavoro!).
Ma anche quando parliamo di tecniche digitali avanzate: i professionisti di rado hanno il tempo e le energie per approfondirle – se non le utilizzano direttamente per il proprio lavoro – mentre un appassionato spesso ne diventa un esperto di alto livello.
Ciononostante, la preparazione e le capacità del docente non sono garantite se non dalla conoscenza diretta dello stesso, e per questo è sempre bene evitare di partecipare a workshops se il docente non è un personaggio noto o se non è organizzato da un’associazione di riconosciuta serietà.
Comunque, è appena il caso di notare che, con le dovute eccezioni, in quest’ultimo caso viene meno il concetto di base del workshop, che dovrebbe essere concepito come il “trascorrere del tempo con un fotografo, sul campo, a fotografare”, dove per fotografo si intende una persona che ha fatto di questa arte la propria ragione di vita, o la propria professione (le due cose non necessariamente coincidono).
Tutto dipende anche da quelle che sono le aspettative dei partecipanti. Teoricamente, chi pratica la fotografia di “street”, o la fotografia naturalistica, o la fotografia di ritratto, di glamour, di nudo artistico e così via, vorrà trascorrere del tempo con fotografi affermati nei rispettivi campi per vedere dal vivo che attrezzature usa, come si muove, come si rapporta al soggetto.
In questo caso, la posizione professionale del fotografo docente è un aspetto fondamentale, da cui non si può prescindere.
Quelli che vanno diffondendosi sempre di più oggi, invece, anche grazie al fatto che hanno dei costi decisamente più abbordabili, sono delle “uscite fotografiche” in cui il docente (che spesso ha un livello di preparazione pari a quello dei partecipanti, a volte inferiore) si limita a dare consigli generici, a fornire qualche “dritta”, a svelare qualche trucco d’effetto, o a condividere qualche luogo “segreto”.
In altre parole, non condivide un pezzetto della propria vita – come farebbe il professionista – semplicemente perché non vive di fotografia, ma è a sua volta un appassionato, sebbene magari molto preparato e assiduo.
In conclusione, quello dei workshops è un vero e proprio campo minato, in cui occorre muoversi con prudenza, per non correre il rischio di buttare i propri soldi…
Ecco in breve i miei consigli:
- studiate sempre attentamente il lavoro del docente del workshop: anche se si tratta di un noto professionista, guardate con attenzione le foto pubblicate sul suo sito e valutate se è il genere di immagini che a voi piacerebbe imparare a fare, se vanno incontro alla vostra sensibilità, se il modo di esprimersi e raccontare del fotografo è simile al vostro, o magari invece molto diverso, in modo che vi stimoli a esplorare strade nuove;
- controllate il curriculum del docente e verificate che abbia già svolto altri workshop e soprattutto che svolga attività parallele come conferenze, pubblicazioni, articoli su giornali e così via, insomma che sia interessato non solo al “vile” denaro, ma anche, e sinceramente, alla crescita culturale e alla diffusione della fotografia;
- verificate se il fotografo utilizza una struttura di appoggio (propria o di terzi, o anche associazioni e circoli fotografici) o se organizza i workshops da solo, e se questa attività è solo secondaria rispetto ai propri interessi, o se invece organizza regolarmente simili docenze: questo vi darà conto della sua determinazione, competenza e interesse nel campo dell’insegnamento, e vi darà un certo grado di certezza di non trovarvi di fronte qualcuno che si è “inventato” un ripiego professionale;
- prestate attenzione alle modalità di svolgimento del workshop stesso: la cura maniacale che alcuni professionisti mettono nell’organizzazione è un segnale di serietà. E’ ben chiaro dove, come e a che orari si svolgeranno le attività, o è tutto molto vago? Ci sono numeri telefonici o email per contattare per tempo l’organizzazione? Il fotografo ha una newsletter con cui aggiorna i partecipanti ai suoi workshops, facendoli sentire parte della sua “famiglia”?
- Attenti ai workshops che sono in realtà dei semplici viaggi fotografici: se l’obiettivo è fare un giro fotografico a Roma o Venezia, o un’uscita fotografica sull’Etna, va benissimo, ma questo non è un workshop: debbono sempre essere dichiarati gli intenti didattici dell’uscita. Cosa impareranno i partecipanti? Quali tecniche verranno illustrate? Perché ci si reca in un determinato posto invece che in un altro?
- Diffidate sempre dei workshops offerti a prezzi troppo bassi. Un professionista dedica tempo ed energie all’organizzazione di un simile evento per passione certo, ma soprattutto perché è parte del suo lavoro. Dunque solo chi non vive di fotografia può offrire quote d’iscrizione molto economiche. Fate due calcoli: in genere il numero massimo di partecipanti a un workshop (che dev’essere chiaramente indicato) è di 10 persone. Se la lista di iscrizioni è completa (e capita di rado), è evidente che se la quota è di 10-15 euro, per l’intera giornata l’incasso sarà di 100-150 euro: tolte le spese e le tasse, in pratica un rimborso spese! Solo chi evade le tasse e non vive di questo lavoro può permettersi simili cifre. Vale sempre la considerazione che avrete ciò che pagate, e che nessuno vi regalerà mai niente, se non c’è un motivo ben preciso (e raramente c’è)…
- Se abitate nelle grandi città, potreste decidere di approfittare delle Scuole di Fotografia, anch’esse proliferate negli ultimi anni, sull’onda del passaggio al digitale. Molti appassionati, infatti, si sono trovati in difficoltà nel gestire l’abbandono del grano d’argento a favore del pixel, e si sono affidati a corsi e workshop per districarsi nella materia. Le scuole più serie, ed è facile riconoscerle perché svolgono numerose attività parallele, come mostre e organizzazione di convegni e conferenze, oltre ai corsi “residenziali” offrono anche workshop tematici, in genere organizzati molto bene;
- infine: valutate attentamente le vostre motivazioni. Innumerevoli fotografi hanno imparato la tecnica, hanno perfezionate le proprie capacità, senza aver mai partecipato a un workshop. Io, ad esempio, ne ho tenuti diversi come docente, ma non ne ho mai fatto uno come allievo, eppure fotografo sin da bambino e sono stato professionista per oltre quindici anni, e ancora oggi vivo di fotografia. Ricordatevi che il workshop è anche, ma forse soprattutto, un regalo che vi fate: l’occasione di provare qualcosa di nuovo, di conoscere altre persone, di dare un’occhiata ad altri mondi, insomma un evento ludico, oltre che di crescita personale.